6.0
- Band: DYING FETUS
- Durata: 00:53:59
- Disponibile dal: 23/06/2017
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Difficile mantenere alto il livello di attenzione del proprio songwriting dopo quasi trent’anni di carriera e la bellezza di otto album composti pressoché in solitaria. Difficile non cadere nella tentazione di riciclare qualche riff per guadagnare tempo prezioso o di premere il tasto ‘pilota automatico’ per raggiungere – sicuri e a velocità di crociera stabile – il porto più vicino. Lo sa bene John Gallagher, da sempre al timone della corazzata Dying Fetus e personaggio-chiave dell’evoluzione in salsa hardcore del death/grind di matrice americana, avendo di fatto gettato le basi per la nascita del movimento death-core e influenzato con il suo stile dinamico e terremotante centinaia di formazioni sparse per il mondo. Una figura verso cui è impossibile non nutrire un misto di rispetto e ammirazione, ma che già da un paio di release (vedasi “Reign Supreme” del 2012) incappa in scivoloni più o meno evidenti che ne compromettono l’operato e ci fanno sorgere qualche dubbio sul detto ‘il buon vino migliora con il tempo’. E a questo proposito, spiace doverlo ammettere, il nuovo “Wrong One to Fuck With” si configura fin dalle prime battute come l’opera più debole mai partorita dalla penna del cantante/chitarrista di Baltimora, risultando appannata sia nei tipici momenti ‘à la Dying Fetus’ che in quelli dove – almeno in teoria – il focus si dovrebbe concentrare su soluzioni atte a svecchiare la formula. Detto che le scelte di produzione, oltremodo fredde e laccate, mal si sposano all’immaginario rivoltoso della band, i brani scelgono fondamentalmente la via del compromesso, tra parentesi che guardano agli insegnamenti di un capolavoro come “Destroy the Opposition” (il finale di “Reveling in the Abyss” è persino scippato dall’incipit di “Praise the Lord”) e fughe chitarristiche dal sapore techno-death di metà anni Duemila, pensate appositamente per esaltare un certo tipo di pubblico di giovanissimi. Il risultato complessivo è giocoforza penalizzato da questi aspetti, e pur raggiungendo la sufficienza grazie all’esperienza messa in campo e a qualche episodio ben assestato (“Weaken the Structure”, la titletrack) non può che avvicinarsi ad una grossa, amara delusione. Forse d’ora in avanti sarà meglio badare alla dimensione live, dove i Nostri – ne siamo certi – continueranno a massacrarci e divertirci come ai bei tempi andati.