7.5
- Band: EARTH
- Durata: 00:47:14
- Disponibile dal: 02/09/2014
- Etichetta:
- Southern Lord
- Distributore: Goodfellas
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La musica degli Earth è come un cerimoniale. E’ un mantra infinito che scuote lo spirito dalle fondamenta, lo pervade in ogni snodo per poi sgorgare fuori dalle membra e dalla pelle. E’ musica che si sente sia nell’anima che nel corpo. Le basse frequenze non smuovono solo aria in masse gigantesche ma colpiscono anche il cuore, avvolgendolo in enormi mareggiate di stordente e dilatatissimo blues rock. Questa band crea canzoni che provocano uno sprofondamento, “una sorta di sonno” diranno i più cinici, ma è un qualcosa di più prossimo ad un viaggio. Gli occhi si chiudono e la ciclicità che permea la musica di questa band si dispiega come un’aurora trasportandoci con la mente in spazi infiniti di profondissima e venerabile natura roots. Da un lato tornano affatto velate le lugubri e salmastre influenze drone e doom delle origini, l’opener “Torn by the Fox of the Crescent Moon” per esempio è un tumulo di feedback, venerazione per i Sabbath persa in una steppa di languido calore western. Ma i riff ci sono e si sentono, sono grossi come case: “Even Hell Has Its Heroes” può addirittura chiamare in causa Sunn O))) (coloro che che li hanno prima venerati e poi estremizzati), e questa è una bella e piacevole circolarità a cui assistere, come se il maestro abbia preso ispirazione dal suo allievo più brillante. Fatto sta che il pezzo è sia greve che gravido di watt e basse frequenze anche se un assolo blues dai tratti inconfondibilmente country lo taglia perpendicolarmente come una orrenda, bellissima, cicatrice. “Rocks Across The Gate” e “There Is A Serpent Coming” ribadiscono con fermezza il nuovo corso della band, quel cammino iniziato con estremo successo con l’ormai estemporaneo “Hex” e che ha visto Carson e soci voler trasformare Neil Young in un cimitero di perdizione, redenzione, lentezza e sonnambulismo doom. Ci riescono di nuovo, trasportando l’ascoltatore in un limbo surreale in cui il rock americano di matrice “roots” assume connotati di dannazione incredibili senza perdere un grammo del suo fascino tradizionale – un luogo in cui blues, space rock, americana e doom collidono in strepitose implosioni di luce e colori mossi alla velocità del coma più profondo che si possa immaginare. Gli Earth ormai sono una band più adatta ai fan di Neil Young, Wovenhand, Chelsea Wolfe, King Dude, Nick Cave e compagnia bella che a quelli dei Melvins e dei Neurosis come in origine fu e se è vero che le chitarre luccicano più che mai in un perpetuo marasma di scintillanti zampilli blues, dall’altro lato è vero anche che linealogia “dannata” della band, proveniente dal doom, sembra rivivere in maniera estremamente evocativa in questo disco. Infine oltre ovviamente al fatto che siamo difronte ad uno dei primi dischi degli Earth in anni ad avere le voci, giusta menzione va fatta a chi è stato chiamato da Carson e Davies (ormai il duo è da considerarsi il midollo indissolubile della band) a rinvigorire il pedigree eccelso del disco: Bill Herzog al basso (Sunn O))) ), Joel RL Phelps, Jesse Sykes and the Sweet Hereafter, Brett Netson (Built To Spill, Caustic Resin), Jodie Cox (Narrows), e per finire per sino Mark Lanegan e Rabia Shaheen Qazi (Rose Windows). Ri-salutiamo l’ennesimo riuscitissimo lavoro dei maestri senza batter ciglio.