5.5
- Band: EARTH SHIP
- Durata: 00:34:32
- Disponibile dal: 14/08/2014
- Etichetta:
- Pelagic Records
Spotify:
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La Pelagic Records di Robin Stabs sembra essersi fermata lì dove aveva iniziato, o comunque non sembra in grado di superare i presupposti della propria nascita e guardare oltre il muro concettuale e stilistico della band madre – i The Ocean. Pubblica da almeno quattro o cinque anni a questa parte i lavori delle stesse band, ancora e ancora, senza accorgersi che il mondo intorno intanto cambia velocemente e che ora il roster della label rischia di sprofondare in una certa irrilevanza. La label era sostanzialmente partita come la risposta europea alla americana Translation Loss (altra label evidentemente molto meno attiva di un tempo) e infatti continua a pubblicare lavori di band post-hardcore sempre in salsa sludge che sono essenzialmente una continuazione ridondante e prolissa di band americane come Rosetta, Mouth of the Archictect, American Heritage (tutte band del roster Translation Loss), Bison B.C., primi Mastodon, Keelhaul, Red Fang, Howl, Black Tusk e compagnia cantante. Band che hanno sempre mischiato i riff dei Melvins e degli Isis con le tendenze “neocore” dei Dillinger Escape Plan, dei Breach, dei Botch, dei Cave in eccetera con le ovvie spruzzate post-rock per creare atmosfera e un certo sub-strato di preziosità e “bellezza”. In questo filone si inseriscono in maniera perfetta anche i tedeschi Earthship, di cui seguiamo le vicissitudini su Pelagic Records ormai da tre dischi a questa parte, sin dal 2011. E anche in questo capitolo abbiamo l’impressione di essere rimasti incastrati a metà del decennio scorso, quando appunto sono esplosi fenomeni come i Torche e Mastodon e quando il suono HydraHead fatto di sludge metal muscoloso e dinamico e post-hardcore emotivo ed atmosferico dominava l’underground in lungo e in largo. Tanto è cambiato da allora e forse, il meglio di quella scuola è già stato ampiamente espresso, ed ecco perché il suono dei Nostri ci risulta piatto e incolore e privo di coraggio a sentirlo oggi nella sua inconsapevole irrilevanza. Anche il suono saturo, lordo e super-”processed” delle chitarre, quasi si trattasse di una versione sludge-core dei Deftones, ci appare pomposo e innaturale, soprattutto se si considera che la produzione del disco sembra aver ricevuto più attenzione del songwriting, che in tutto il disco appare banale, stantio e già strasentito mille volte. Il genere proposto dalla band avrà certamente il suo fanbase di riferimento nel quale riscuoterà plausi senza dubbio, ma dubitiamo che un disco incentrato su nozioni stilistiche così stantie e ormai consumate otterrà consensi altrove.