7.0
- Band: EAST OF THE WALL
- Durata: 00:54:46
- Disponibile dal: 29/10/2013
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- Translation Loss
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C’è un alone di mistero e di assurdità che gravita intorno a questa band, vuoi per il fatto che in Italia rimanga una creatura per gran parte sconosciuta, praticamente staccata da qualsiasi scena ci venga in mente, vuoi per la presenza di tre chitarre e la conseguente creazione di un suono imprevedibile e difficile da collocare. Per idee e modus operandi vengono in mente i Between The Buried And Me, complice un assetto strumentale che richiama gruppi totalmente diversi tra loro come The Dillinger Escape Plan, The Ocean, Opeth, Radiohead, Baroness e la stessa band di Tommy Rogers, tanto per fare qualche esempio, ma il quintetto del New Jersey sembra giocare ancora di più sull’imprevedibilità e sull’audacia di certi passaggi, proponendo di fatto una musica quasi utopistica, suonata in maniera impulsiva eppure ragionata in ogni suo minuzioso dettaglio. “Redaction Artifacts” è un serial killer deviato e meticoloso, figlio diretto dei suoi predecessori – fin dall’esordio strumentale “Farmer Almanac” i Nostri hanno aderito ad un percorso ben preciso di evoluzione personale – portato all’eccesso da una lunga tracklist ricchissima di spunti e di assurdità. Dall’iniziale “Solving The Correspondence”, una breve intro che per stile ricorda i Dream Theater, sino ad arrivare alla conclusiva “Noir Filter”, summa dell’intero East Of The Wall-pensiero con i suoi repentini cambi d’umore e d’arrangiamenti, è un’incredibile sarabanda di note e di progressioni strumentali, un susseguirsi di delicate introspezioni, attacchi post-hardcore, dilatazioni rock e tecnicismi sopraffini; una pazzesca unione d’intenti che denota affiatamento e idee chiarissime sul percorso da seguire. Viene quasi superfluo sottolineare come l’esito possa in qualche modo destabilizzare e confondere l’ascoltatore nei suoi primi approcci con il disco: la carne al fuoco è molta, a volte troppa e, come se ciò non fosse sufficiente, l’alternanza tra cantati alternative e urla disperate giunge come un letale colpo di grazia alle povere orecchie già in frantumi dal caos iperbolico scaturito da ogni singola traccia. Al di là della grande ispirazione e dell’invettiva messe in mostra, la scarsa immediatezza dell’opera e il suo intricato sistema di lettura potrebbe essere un ostacolo insormontabile per quelle frange di pubblico attente all’efficacia e alla schiettezza. Per intenderci, “Obfuscator Dye” offre un grande esempio di salto tra Opeth e Mastodon restando dentro una linearità efficace e in qualche modo geniale ma, al contrario, un brano come “Excessive Convulsive”, che mostra il lato più duro della band, fallisce nel tentativo di dare mordente alla proposta, finendo per perdersi tra le intricatissime trame in suo possesso. In conclusione, nonostante l’opera fruisca di un indubbio fascino e di un eclettismo di fondo degno di premurose attenzioni, resta un po’ di rammarico per l’assenza di un’accessibilità spesso negata. La musica degli East Of The Wall, ad oggi, è uno di quegli enigmi impossibili, che stimolano a cercare a tutti i costi la soluzione finale, ma che spesso portano all’esasperazione e al conseguente abbandono. In ogni caso, tessere ragnatele così fitte è roba per pochi eletti: complimenti!