9.0
- Band: ELECTRIC WIZARD
- Durata: 01:11:08
- Disponibile dal: 09/10/2000
- Etichetta:
- Rise Above Records
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Anno del signore Duemila: mentre il mondo fagocita profezie e oracoli sul passaggio del nuovo millennio e attende (invano, per il momento) apocalissi digitali e geografiche, il mondo del metal respira e si evolve a modo proprio, in maniera quasi autonoma.
Di quell’anno sono infatti, ad esempio, l’indimenticabile “Follow The Reaper” dei Children Of Bodom o “White Pony” dei Deftones, istantaneamente capace di creare una nuova stoà di filosofia musicale; nello stesso momento, la scena estrema vede i primi vagiti di formazioni come Pantheist e Mastodon, destinate a modo proprio a cambiare i connotati del proprio genere di riferimento.
E poi, nel nebbioso Dorset britannico, ci sono gli Electric Wizard, anche loro sul punto di alterare le fattezze di quella parte del metal votata al culto più lisergico di Tony Iommi: il gruppo, reduce dal buon successo di “Come My Fanatics…”, viene sollecitato da Lee Dorrian (fondatore dell’etichetta Rise Above Records e mente lisergica dei Cathedral), a crearne il successore.
In quel momento, il trio inglese si trovava invischiato nella tela appiccicosa di varie dipendenze, e la composizione del nuovo album risulta difficile, tormentata.
Eppure il disco che viene sudato fuori da jam session e sedute di riabilitazione, “Dopethrone”, è uno di quegli album che, proprio perchè frutto di una situazione psicologica e fisica sofferta, di una gestazione complicata, di tumulti chimici e mentali, risultano particolarmente carichi di energia (nerissima, ovviamente).
“Dopethrone” non è un album pioniere in senso stretto, ma è parte di una cordata esplorativa, fianco a fianco con l’operato di Sleep, Orange Goblin o degli stessi Cathedral, capace di schiantare le maglie dell’universo e penetrarne le dimensioni più allucinanti e allucinate unendo la psichedelia degli anni Settanta con la polvere nomade dei charter di motociclisti e il doom scaturito dall’eredità dei Black Sabbath: quello che mostra, da “Vinum Sabbathi” all’oceanica, finale title-track, è una serie di incubi realistici che fondono Lovecraft con le distorsioni ribassate delle chitarre, omaggi a film horror (“The Hills Have Eyes”, e quella sua deliziosa improvvisazione blues a sfumare), “Malleus Malleficarum” e voci sguaiate che abbaiano dietro ad una sezione ritmica pachidermica e densa come la pece.
Jus Oborn, Tim Bagshaw e Mark Greening, reduci da arresti per incendio doloso (il primo) e furto in un negozio di liquori (il secondo), incidenti motociclistici (il terzo) e una generale difficoltà a stare lontani da droghe e alcool, entrano in studio con solo tre pezzi pronti e creano tra pareti insonorizzate il resto, tra oppioidi e litigi vari, con un risultato talmente potente che ci chiediamo come sarebbero andate le cose se avessero continuato su quella strada.
Basterebbe solo il riff portante dell’immensa “Funeralopolis” a riassumere il perchè questo album ha segnato la mente (e gli incubi) di intere generazioni di ascoltatori e continua a farlo a distanza di quasi un quarto di secolo: una serie di accordi bassi, rugginosi e sulfurei immediatamente riconoscibile, ad aprire la via ad una suite totalmente scostumata, collosa e fuori di testa.
E il resto del disco non è da meno: un’ora e dieci di chitarre squisitamente acide e un basso-colonna portante di capitoli come “Weird Tales”, in cui ad esempio i racconti della rivista omonima acquistano corpo, sostanza e potere immaginifico sui tocchi ora grassi e ora secchi della batteria – il lungo brano che ne porta il nome, diviso nelle sezioni “Electric Frost”, “Golgotha” e “Altar of Melektaus”, è una sintesi perfetta delle perversioni mostruose immaginate nei numeri cartacei, rallentando in maniera sempre più agonizzante fino a trasformarsi in pura sperimentazione sonora.
Il rantolante “The wizaaard” di “Barbarian” è iconico in ugual modo, ma lo stesso si può dire del solenne, lurido andamento di “I, The Witchfinder” o dell’inno nichilista e drogatissimo “We Hate You”, vero e proprio manifesto della scena stoner doom più nera e velenosa; arrivare alla conclusiva canzone eponima non è facile, e lì arriva il colpo di grazia: venti minuti che sembrano venti ere geologiche eppure non bastano mai, in cui la realtà si distorce e se ne altera ancora una volta il tessuto stesso in un modo fino ad ora sconosciuto, lasciando dietro di sè bad trip, tachicardie, sogni oppressi da sudore acido, il sapore metallico di nicotina e hangover ad orari improponibili della mattina e i “riiiise” di Oborn ad artigliarci petulanti il cervello.
“Dopethrone” è un capolavoro – punto di arrivo e partenza per centinaia di band dopo di loro – in cui disagio e astrazione si fondono in panorami sonori rumorosissimi, pesanti e sperimentalmente inediti, consacrando davvero gli Electric Wizard nel pantheon dei Grandi Antichi dello stoner doom in cui, con andamento ondivago e altalenante, ma mai (per nostra fortuna) razionale, permangono tutt’ora.
Un album da calarsi smoderatamente e, possibilmente, senza troppe precauzioni: le controindicazioni sono comunque meravigliosamente nocive a prescindere dal tempo di esposizione.
“Dope priest prophecy
Doomantra from beneath the sea
Green throne, raised to the black sun
Doom child, wake to planet song”