6.5
- Band: ELEVATORS TO THE GRATEFUL SKY
- Durata: 43:20
- Disponibile dal: 11/03/2016
- Etichetta:
- Hevisike
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Stoner palermitano al suo apice questo di “Cape Yawn”, secondo album degli Elevators To The Grateful Sky, un connubio nominale di influenze tra i 13th Floor Elevators e i Grateful Dead. Rispetto al precedente “Cloud Eye” però, il suono dei siculi si riempie ulteriormente e si amplifica a ventaglio verso le tonalità dell’hard psych ormai in voga di questi tempi in una misura sia tradizionalista sia, al contempo, sempre ben riuscita e ben prodotta. Ardua impresa infatti buttarsi ancora a capofitto nel grande calderone delle produzioni ruotanti intorno alla psichedelia vintage riesumata negli ultimi anni da carovane di band non solo americane, ma soprattutto europee, ma c’è sicuramente anche da sottolineare il fatto che molto spesso le intenzioni dei gruppi che fanno questo salto sono più naturalmente genuine che presuntuosamente idealistiche. Ed è con questi occhi che “Cape Yawn” degli Elevators To The Grateful Sky, pur non offrendo chissà quale svolta o peculiarità stilistica, non sfigura assolutamente come prodotto finito, autentico e vissuto, pur sempre mostrando un lato già sentito innumerevoli volte. I ragazzi palermitani, tutti gravitanti attorno ad altre realtà underground più miscellanee, sanno, come già dimostrato assolutamente, fare del buon vecchio rock’n’roll. I riff si susseguono continuamente e massicciamente impostati per reggere l’equilibrio del brano ed è quindi a loro che si rivolge subito l’attenzione principale (vedi nella opener “Ground”). Il lavoro delle chitarre Giorgio Trombino e Giuseppe Ferrara è sicuramente degno di nota per calibro e ispirazione, donando momenti come l’intro di “Kaiser Quartz” che sembrano essere usciti direttamente da un album dei Fu Manchu, mentre con “I, Wheel” appare lo spettro del doom più sabbathico ed oscuro così come del grunge più primitivo con “Bullet Words”. Le atmosfere più soffuse e fumose (nell’ottima title track) echeggiano nel corso dell’album intervallando le parti più potenti, come nel caso della desertica “Mongerbino”, che ripesca le tonalità da b-movie da cinema drive in texano come nelle migliori storie di Lansdale. Senza dire nulla di eccezionale, “Cape Yawn” è un album che non delude le aspettative e porta ulteriore solidità alla formazione palermitana, inquadrandola a vera e propria realtà di genere nel panorama nostrano e ora, con la giovane etichetta di Birmingham, anche altrove. Sembra che l’ascensore continui, come ci auguriamo, a salire sempre di più.