7.0
- Band: EMBRYONIC DEVOURMENT
- Durata: 00:31:08
- Disponibile dal: 18/02/2014
- Etichetta:
- Deepsend Records
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Si sono fatti aspettare questi Embryonic Devourment, dal momento che dopo quasi quattro anni tornano con un nuovo album, “Reptilian Agenda”, collocato sulle coordinate definite dal precedente, benché appaiano sviluppate più in profondità, così da generare maggior organicità che in passato e poter incorporare qualche significativa novità, come una diminuzione degli inserti melodici e l’orientamento più moderno di alcune canzoni: “Challenging All Forms Of Hope”, ad esempio, riesce ad ibridare suggestioni à la Nocturnus con le nervature scoperte degli Origin. Questo gruppo riesce ad esprimersi in modo convincente secondo un tipo di formalismo caro alla scena californiana, ovvero quello che teorizza un death metal molto tecnico, con lo sguardo volto a panorami vagamente progressive: differentemente da gruppi come i Rings Of Saturn (uno a caso…), che devono aver confuso il concetto di “bello” con quello di “casualità di inserimento scale”, questi ragazzi sanno come costruire un pezzo dalla struttura complessa e multifronte, senza perdersi tra i vezzi zuccherati dell’autocompiacimento e – soprattutto – senza perdere di vista una sana, necessaria cattiveria (ascoltate “Bloodgift”): il risultato complessivo è rappresentato da una serie di canzoni distinte da formule compositive sempre differenti, basate su strutture curate e variegate, capaci di dare lustro alle peculiarità tecnico-compositive del gruppo; se “Masonic Angeldust”, col suo incipit forgiato su riff a doppio andamento (massiccio/veloce), privilegia dinamiche sghembe, “Sealed With Resin” muove da un’intro arabeggiante per esplodere in un pezzo tirato ma complesso, mentre “Whilst The Rich Dine” si regge su un riff decisamente pachidermico (fatto piuttosto raro in questo disco), che le conferisce un’atmosfera quando allucinata, quando allarmata. L’aspetto che accomuna tutti i brani, impressionando in modo positivo, è il grande lavoro ritmico, dal momento che ogni linea di basso o batteria risulta adeguatamente studiata per sostenere la forma cangiante dei pezzi, con un occhio di particolare riguardo per i passaggi veloci: quest’ultima particolarità rappresenta un’arma a doppio taglio, perché rende meno immediatamente percettibili i cambi di tempo, cosa che potrebbe creare un po’ di confusione nei primi approcci; ad ogni modo, niente che ascolti successivi non possano farvi lasciare alle spalle. Anche il suono, infine, risulta migliore perché più definito, tuttavia non tutte le “beghe” sono state risolte: la poca incisività vocale (nonostante una certa ricercatezza metrica) e la tendenza a inserire qualche pezzo riempitivo, come “Reptiphiliac”, lo confermano; in definitiva, dunque, possiamo parlare di una band che pare aver mosso dei passi nella direzione giusta: gli auguriamo di continuare così.