7.0
- Band: EMMA RUTH RUNDLE , THOU
- Durata: 00:35:49
- Disponibile dal: 30/10/2020
- Etichetta:
- Sacred Bones Records
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Ha il sapore dell’incompiutezza il disco collaborativo tra Emma Ruth Rundle e gli Thou. Un matrimonio che non riusciamo a bollare come non riuscito, deludente; d’altra parte, nemmeno ci sentiamo di lodarlo per la passione e l’armonia che ne certificherebbero il pieno successo. L’operazione di per sé è interessante: mettere assieme una vocalità morbida, duttile e di carattere come quella della Ruth Rundle, capace di evocare oscurità come di liberare lucentezza, con un’entità iconica dello sludge strascicato, tossico e, a suo modo, evocatore di una sporca, sgranata malinconia. Un nichilismo contraddittorio, non inguaribilmente devastato come il grosso delle realtà sludge/doom di provenienza sudista, stessa area degli Thou, da Baton Rouge. Come galanteria vuole e data la natura delle due entità qui impegnate, il collettivo della Louisiana sta uno, facciamo due, passi indietro, mettendo al centro della narrazione la voce femminile. La singer del Kentucky si impaluda – in senso buono – in tonalità relativamente basse, annerendo la sua voce come difficilmente le si è udito fare nelle prove soliste e nel materiale dei Marriages. Tuttavia non va snaturandosi, pur risuonando questa volta come un’interprete di impronta doom, toccando quelle corde tipicamente dark, vagamente minacciose senza esser genuinamente tremende, riconducibili al cantato femminile quando si porta verso stilemi veramente heavy. Ed i Thou che fanno? Quello che fanno di solito, senza esagerare in feedback e distorsione.
Bryan Funck duetta con la Ruth Rundle, oppure le rimane in scia, enfatizzando e contrastando la sua voce; il crepitante, comatoso riffing, gorgoglia da par suo, levigandosi quel che basta per non soffocare la voce principale. Si apre non di rado ad arpeggi, partiture dilatate e gradevoli, portatrici di un mood vagamente decadente. Rispetto agli standard della casa, il moto tendenzialmente uniforme e soffocante del gruppo prende una piega leggermente più dinamica, per quanto non vi siano scostamenti rilevanti nei pattern ritmici da un brano all’altro. Per quanto ci sia dell’evidente talento – ben noto, del resto – e dello sforzo per creare qualcosa di speciale, che rimanga un unicum per entrambi, pare di assistere a una semplice somma delle parti, piuttosto che una vera fusione di esse. I brani, con poche eccezioni, si collocano in quella categoria non sgradita ma nemmeno chissà quanto anelata del ‘piacevole ma non indispensabile’, ossia quel materiale che si ascolta sì volentieri, però si ha la sensazione che non ci rimarrà impresso nella mente e nel cuore.
Le due personalità si accostano, senza unirsi in qualcosa che possa superare le divisioni stilistiche. Si rimane al di qua di una piena compiutezza del progetto, come se fosse mancato lo slancio per rendere la collaborazione memorabile. Così, invece, suona come un compito ben eseguito, privo del necessario trasporto per ammaliare e provocare meraviglia. L’alternarsi di quiete e tempesta, le esplosioni di livore sludge abbinate a melodie amarissime, non sono affatto inconcludenti, eppure paiono rispondere a uno schema di buona riuscita formale, ma abbastanza atteso e programmatico. Rinveniamo in “Ancestral Recall” e soprattutto nella bella chiusura di “The Valley” i migliori frutti degli sforzi comuni, zampate di classe purtroppo non così abbondanti nel resto di “May Our Chambers Be Full”. Occasione sprecata? No, quello no. Solo una scintilla non scoccata, un processo chimico che ha dato solo in parte i risultati sperati. I fan di entrambi gli artisti provino comunque ad ascoltare con calma, visto che in ogni caso gli interpreti non si sono snaturati e hanno cercato di dare continuità a quanto da loro ci si può aspettare.