7.5
- Band: EMPTINESS
- Durata: 00:43:32
- Disponibile dal: 12/02/2021
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Sempre più distanti, sempre più impalpabili, sempre più smarriti in un altrove che poco o nulla ha da spartire con le loro origini estreme, almeno se si decide di prendere in esame l’effettivo stile della musica suonata. Al secondo disco per Season of Mist, gli Emptiness gettano definitivamente la maschera e fanno piazza pulita delle reminiscenze death-black ancora presenti su “Not for Music”, portando a compimento un’evoluzione che, se con ogni probabilità finirà per alienare una larghissima fetta di pubblico, inclusa quella più avvezza alle sperimentazioni, ha l’indubbio pregio di risultare coerente con il messaggio che da sempre si accompagna alle loro release e al loro monicker.
Un gocciolio di sonorità oggi più che mai soffuse e refrattarie anche solo al mero concetto di struttura e sviluppo delle composizioni, in cui gli strumenti finiscono per essere appena sfiorati e la voce si perde in un sussurro (effettato) che sa di puro smarrimento. Una proposta che non è ambient nel senso stretto del termine, ma che proprio come il suddetto filone si configura più come un sottofondo, un eco dagli angoli più reconditi dell’inconscio, che come un contenuto da sviscerare analiticamente, con la conseguente necessità delle giuste condizioni e del giusto stato d’animo per essere compresa. Muovendosi tra dark wave, dream pop, post-punk e sottili strati di elettronica, il gruppo belga dà vita ad una serie di nenie apocalittiche che sembrano rincorrersi e perdersi l’una dentro l’altra, in un flusso di silenzi vibranti la cui capacità di insinuarsi sotto l’epidermide – dapprima impercettibile – diventa via via sempre più palese e malevola, generando nell’ascoltatore un fortissimo senso di vuoto e vertigini.
Tutto è immobile e al contempo tutto si muove, nella tracklist di “Vide”, con il basso di Jeremie Bezier mai così protagonista della scena e intento a costruire ossature ritmico-melodiche che sovente i compagni rifiniscono appena, nell’ottica di un lavoro di sottrazione tanto spiazzante quanto evidentemente ricercato, fra arpeggi sospesi, effettistica straniante e percussioni lontane. Di sicuro non parliamo di un disco da tutti i giorni, né tanto meno dell’opera più completa del quartetto (per forza di cose), ma l’esperienza complessiva – dall’opener “Un corps à l’abandon” fino alla conclusiva “L’ailleurs” – è e resta affascinante per la sua capacità di traghettare la mente e il fisico in una dimensione di incubi lisergici e ricordi distorti. L’ennesima prova di coraggio e personalità di una band a cui il consenso del pubblico, evidentemente, non interessa affatto.