6.5
- Band: EREB ALTOR
- Durata: 00:49:14
- Disponibile dal: 21/07/2017
- Etichetta:
- Hammerheart Records
Spotify:
Apple Music:
E fu così che il tradizionale omaggio degli Ereb Altor ai Bathory arrivò anche questa volta. Il quartetto svedese, infatti, era chiamato ad una sorta di doppia impresa: se da una parte gli si chiedeva una definitiva sferzata di originalità alla propria carriera, dopo cinque album sì buoni ma ancora troppo ancorati (scusate il gioco di parole) alle corde tirate a suo tempo dal sommo Quorthon, dall’altra era quanto meno d’obbligo spazzare via il brutto, nonchè ultimo episodio targato “Blot-Ilt-Taut”, in cui i nostri si erano lanciati in un tributo poco riuscito, e soprattutto non necessario, proprio a quei Bathory, da sempre loro modello d’ispirazione e già richiamati, come scritto, in tutti i loro lavori. Sfida superata? In parte. Archiviato il tributo, e non ci voleva molto, rimane il dubbio sul vero intento della band scandinava: diventare grandi e maturi o proseguire su questa strada ‘sostituendosi’ definitivamente al maestro che li ha preceduti? Anche nel nuovo “Ulfven”, infatti, nonostante un piccolo passo avanti di personalità, la scuola black, ed in particolare quella viking, impartita da Quorthon si fa sentire eccome, soprattutto nei brani più cadenzati e atmosferici, in cui il rimando ai classici contenuti in “Hammerheart” e “Twilight Of The Gods” è più che evidente. Non solo: dopo i primi due album dove il doom la faceva da padrone, e la successiva virata black con “Gastrike e “Fire Meets Ice”, con “Nattramn” prima e il qui presente “Ulfven”, il cantato ha adottato quella stessa formula ‘bathoryana’ dove gli scream si alternano (nel nostro caso più o meno bene) ai puliti, creando quella tipica atmosfera viking in cui l’epicità ed il folklore lasciano il passo a passaggi più tirati e malvagi. A conferma di quanto appena scritto, subito dopo la profezia (“Völuspà”) che dà l’avvio alle danze ed a “En Synd Svarm Som Sot” in cui la tradizione delle terre svedesi viene espressa su ritmiche un po’ troppo cadenzate, ecco l’accattivante “Av Blod Är Jag Kommen” dove il connubio clean-scream scandisce bene l’incedere di stacchi melodici, intercalati a riff più fulminei, prima che il tutto si concluda con una sorta di litania al limite dell’urlato. Le radici degli Ereb Altor non vengono comunque accantonate in toto e “The Rite Of Kraka” ce lo ricorda apertamente: una marcia spedita di blast-beat ricalca, seppur in chiave moderna, quel “The Under Sign Of The Black Mark” rilasciato, manco a dirlo, dai Bathory giusto giusto trent’anni fa. Sono invece le tradizioni a prendere il sopravvento nella parte centrale dell’album. La titletrack prima e la successiva “Wolfcurse” richiamano a sè gli stilemi classici del viking: più arpeggiata e sinfonica, condita dal cantato in madrelingua “Ulfven”, più malvagia la seconda, in cui l’alternanza tra voci sporche e pulite torna nuovamente a farsi sentire. Pomposa risulta invece “Gleipnir”, dove la melodia che guida il pezzo sino alla ‘spaccata’ black, ricorda addirittura vecchie sinfonie innalzate tempi addietro dagli Stratovarius. Ed è la ancor più maestosa “Bloodline” a chiudere un album senza infamia e senza lode. Come già ripetuto, gli Ereb Altor non inventano nulla di nuovo, o meglio, cercano di rischiare il meno possibile, riutilizzando una formula che anni fa riuscì a portare una qualcosa di nuovo, mischiando l’estremismo del black al folklore della tradizione svedese. Per i nostalgici, chiudendo tuttavia un occhio, della scuola Bathory.