8.0
- Band: ESOCTRILIHUM
- Durata: 01:17:50
- Disponibile dal: 21/05/2021
- Etichetta:
- I Voidhanger Records
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Sei album in quattro anni, un costante alone di mistero intorno al suo fondatore, l’evidente crescita e capacità di unire elementi estremi variegati con classe e scelte interessanti. Questi sono gli Esoctrilihum, una band che abbiamo seguito con interesse fin dagli esordi, e che finalmente sfornano il disco che auspicavamo.
“Dy’th Requiem For The Serpent Telepath” è l’album del loro definitivo salto di qualità, quello con cui la misteriosa one-man band francese raccoglie i frutti del suo intenso lavoro e grazie al quale possiamo smettere, per così dire, di limitarci a fare paragoni con Blut Aus Nord o Deathspell Omega, tanto per citare un paio dei loro più illustri connazionali: Esoctrilhum non potrà più essere un nome da sottovalutare, o da citare come puro gioiellino underground da ascoltare per curiosità. Se tematicamente ed esteticamente resta centrale un approccio insieme orrorifico ed esoterico, musicalmente assistiamo a un ammorbidimento del lato più death e marcio, precedentemente presente, a favore di una maggiore epicità, che nulla toglie alle sensazioni soffocanti che da sempre Asthâghul ha saputo evocare coi suoi brani, ma che vengono sempre più virate verso una dimensione più ampia, quasi siderale. E che soprattutto esplora senza timore soluzioni melodiche nuove. Parallelamente alla costante presenza di linee vocali cangianti e riff travolgenti e ipnotici, qui troviamo atmosfere quasi mediorientali e trasognate (“Salhn”, “Hjh’at”), tappeti di tastiere maestosi che riportano alla mente l’approccio sinfonico degli Emperor, o dei Dimmu Borgir nei passaggi più pomposi (“Zhaïc Demon”); il tutto mediato da vent’anni delle migliori proposte di metal atmosferico, sfiorando lidi quasi space in numerosi passaggi, riuscendo a offrire emozioni anche in ‘semplici’ movimenti strumentali dal profondo gusto cinematografico (“Craânag”), o nei numerosi fill più delicati e struggenti (come in “Agakuh”, per esempio); c’è un gusto a tratti retrò ma efficace, che, senza puzzare di naftalina o di ‘già sentito’, rende alcuni dei brani qui presenti dei moderni classici, in cui le evidenti fonti d’ispirazione nulla tolgono all’identità del songwriting di Asthâghul.
I brani restano come sempre molto lunghi e sinuosi, e sicuramente l’unico, parziale difetto di questo gran lavoro si può individuare nella lunghezza complessiva dell’ascolto. Tuttavia le singole canzoni non presentano inutile lungaggini, e i passaggi più dilatati e ossessivi (con quasi qualcosa del Burzum più tormentato, come su “Tyuhr”) hanno sempre significato, al di là del minutaggio notevole; non desistete, dunque, dal farvi trascinare in un riuscito gorgo di emozioni oscure.