6.5
- Band: EXMORTUS
- Durata: 00:42:19
- Disponibile dal: 08/06/2018
- Etichetta:
- Prosthetic Records
- Distributore: Audioglobe
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Quinto album per gli Exmortus. Quinta fatica rilasciata dalla funambolica mente di Jadran ‘Conan’ Gonzalez, chitarrista, singer nonché leader della band di Los Angeles. Un “The Sound Of The Steel” che ripercorre la strada già intrapresa negli ultimi due lavori. A partire dall’artwork, firmato anche in questo caso da Philip Lawvere, già autore di alcune cover made in Kreator. Abbiamo i guerrieri, abbiamo le spade, abbiamo i duelli, a testimonianza dell’intento battagliero del quartetto americano. Un istinto che, come già mostrato in passato, non si riduce a marce epiche in perfetto stile manowariano, ma porta con sè quel tassello neoclassico che, unito ad uno scream dal sapore tipico del Gothenburg-sound, permette all’intero full-length di riflettere raggi di un technical thrash sul quale il tasto della melodia è stato pigiato con veemenza in più di un’occasione. La qualità della band, stravolta come un calzino dallo stesso Gonzalez, è innegabile, come altrettanto sopraffini sono i virtuosismi del nostro ‘Conan’ sciorinati con la propria sei corde. Tuttavia, come nell’ultimo “Ride Forth”, ci sono due elementi che marchiano l’album con un senso d’incompiuto, di un qualcosa che poteva sicuramente andar meglio. Il primo riguarda la produzione: pressoché piatta e monocorde, si distingue per una pulizia fin troppo rimarcata che va a fossilizzare non solo l’impianto compositivo ma anche il comparto emozionale, impedendo pertanto quei sobbalzi emotivi che ci si aspetterebbe dalle dieci tracce presenti in tracklist. In secondo luogo, dopo il botto avvenuto del 2014, targato “Slave To The Sword”, sembra che gli spunti propositivi ed il generale tasso di cattiveria siano venuti meno. Il fatto di aver costruito da capo a piedi un nuova line-up potrebbe anche non aver giovato in questo senso; rimane quindi l’amaro in bocca per ciò che poteva essere ma non è stato. Entrando nei dettagli, l’opener “Make Haste”, “Turn To Tide” e “Riders Of Doom” meritano sicuramente una doverosa citazione, come del resto la strumentale “Tempest”, riproposizione in chiave metallica della “Sonata per piano n.17” di un certo Ludwig Van Beethoven. Più banalotte e ripetitive, riprendendo quindi il concetto di poco fa, “Feast Of Flesh” e la successiva “Into The Maw Of Hell”. Un album piacevole, questo è sicuro, ma le attese, soprattutto dopo il mezzo passo falso di “Ride Forth” erano sufficienti per attendersi sicuramente qualcosa di più.