8.0
- Band: EXODUS
- Durata: 01:00:18
- Disponibile dal: 19/11/2021
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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Un grande merito degli Exodus è quello di garantire affidabilità e certezze ai fan di lungo corso. Con Tom Hunting e Gary Holt, in fondo, non ci si è mai dovuti porre grosse domande su evoluzioni, cambi stilistici, sperimentazioni. Per quanto non li si possa tacciare di immobilismo, i Nostri nascono come band thrash metal e, pur tra alterne vicissitudini, inciampi, ripartenze, sbandamenti e ritorni, ai dogmi del genere non hanno mai abiurato. Passando sopra a un tumore, quello che ha colpito l’indomabile batterista, e ripresentandosi oggi feroci come agli albori, con il secondo album della rinnovata partnership con Steve Zetro Sousa, dopo la comunque fortunata parentesi di Rob Dukes dietro al microfono.
D’altronde, alla base di questo percorso virtuoso vi è una codificazione sonora ben delineata fin dalla rentrée in pompa magna di “Tempo Of The Damned”: un thrash cupo, possente, quadrato e trascinante, caratterizzato da un ventaglio di sfumature chitarristiche lievemente meno ampio di quello ottantiano, mediamente non così scattante e agile come allora sul piano ritmico: una carenza compensata da marmorea compattezza e una forza d’urto non propriamente da artisti ‘di annata’. Sempre in rapporto ai famigerati anni d’oro, cui ci richiamiamo per delineare i confini tra ‘quel’ thrash e quello di oggi, i minutaggi sono andati espandendosi, affinché la reiterazione della malvagità funga da propellente per schiacciare irrimediabilmente l’ascoltatore, travolto da una velenosità per certi versi persino superiore a quella degli anni di “Pleasures Of The Flesh” e “Fabulous Disaster”. Gli Exodus sanno far detonare al meglio una rabbia che ha radici lontane, un impeto che per quanto rifinito e aggiornato dalla produzione del fido Andy Sneap, si riconnette alla sguaiata carica di “Bonded By Blood”. Le connessioni con il precedente “Blood In, Blood Out”, nei suoni, nell’indirizzo stilistico e pure nell’immaginario visivo, sono rilevanti, eppure non si coglie alcuna stanchezza nell’operato del quintetto. Pur non proliferando chissà quali intuizioni di inedita fantasia, il gruppo si dà una bella rinfrescata e propone piccole modifiche al proprio spartito, andando a piazzare alcuni nuovi potenziali classici in una tracklist senza cedimenti e, questo sì, prodiga di tormenti uditivi da thrasher di razza.
La titletrack fa subito annusare l’atmosfera generale parecchio plumbea e inquieta, le tematiche sviscerano un ampio elenco di mali della contemporaneità e questa spietatezza nelle liriche fa il paio con la musica. Vi è una certa complessità di fondo a guidare il songwriting, al gruppo piace inserire sezioni un poco elaborate, sia nelle ritmiche che nelle armonie, per poi abbandonarsi ad attacchi alla giugulare di beata ignoranza. Inconfondibilmente Exodus i cafonissimi cori di “Slipping Into Madness”, notevoli le sfumature dark/horror di “Prescribing Horror”, con alcuni gelidi arpeggi e la vocalità ribassata di Souza a gettare inquietudine. Chirurgica la capacità di sintesi ostentata nella fulminea “The Beatings Will Continue (Until Morale Improves)”, isterica e depravata come fosse stata scritta da un manipolo di ventenni su di giri; sorprendente la verve melodica del refrain di “The Years Of Death And Dying”, con soliste briose a sottolineare le lievi inclinazioni al pulito dello scatenato cantante. È bene non perdere l’attenzione con “Persona Non Grata”, perché si va in crescendo, quanto a qualità dei brani. Eccellente “Lunatic-Liar-Lord”, la canzone più lunga e articolata del lotto, da apprezzare in particolar modo verso la conclusione, grazie a un incrocio prolungato di assoli tutto da gustare per i fanatici dei thrash-solo. La brillantezza esecutiva delle soliste è un elemento che val la pena sottolineare, perché sono diverse le sezioni strumentali di rilievo, quelle che fanno sussultare l’animo metallico più verace.
Se “Cosa Del Pantano” si rivela null’altro che una breve strumentale molto minimale, una strimpellata di chitarra acustica che fa molto folk americano rurale, ben altro spessore hanno “The Fires Of Division” e “Antiseed”. La prima presenta stacchi chitarristici tesissimi e intrecci col basso piuttosto elaborati, inoltrandosi in territori relativamente tecnici, alternando midtempo massicci e accelerazioni fuori controllo; la seconda avanza in un serpeggiare enigmatico in avvio, per poi darci in pasto stop’n’go a pioggia e trafiggerci con un refrain rallentato di rassicurante rozzezza, prima di un altro festival di elaborati assoli per concludere in bellezza. La voce di Souza, sempre più stridula quando la furia si fa accecante, mostra qualche segno del tempo, ma incastonata in quello che è il suo ambiente di riferimento non sfigura affatto; sul fronte strumentale, francamente vi è ben poco che si possa eccepire, difficile pretendere di più quanto a precisione, efferatezza ed entusiasmo: si sente che gli Exodus non sono qua per calcolo e combattono ancora in prima linea con devota convinzione. La thrash metal band più thrash di sempre è di nuovo tra noi ed è giusto onorarla per quello che ancora oggi ci sa offrire!