6.5
- Band: EYEHATEGOD
- Durata: 00:43:14
- Disponibile dal: 26/05/2014
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Universal
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Le attese per l’ascolto di nuovo materiale inedito da parte di uno dei gruppi più feroci, negativi, abbruttiti dell’intero panorama metal erano decisamente alte: gli Eyehategod ci avevano abituato troppo bene in passato, la coerenza delle scorse release faceva presagire che anche stavolta saremmo andati incontro a una crudissima estrapolazione sonora dello schifo che insozza il nostro mondo. Purtroppo, qualcosa deve essere andato storto nel processo creativo o forse, molto semplicemente, sono cambiate le condizioni di partenza, il vissuto dei musicisti, le motivazioni che li hanno guidati nel processo di songwriting. Le proporzioni tra doom, hardcore, blues, punk, gli ingredienti basilari del composto altamente esplosivo messo a punto negli anni dai marcioni della Louisiana, sono mutate, e di tanto. “Eyehategod” infatti è punk. Maledettamente, nudamente, punk. E poi è blues: “Eyehategod” vomita blues, l’omonimo nuovo album attinge in maniera sfrontata a questo stile così antico e radicato nell’America profonda. Questo elemento, il blues, gli uomini di Mike Williams lo hanno sempre mantenuto nella loro musica, ma prima lo massacravano e soffocavano sotto tonnellate di feedback e distorsione e ne lasciavano udire solo barlumi. Ora lo lasciano sgorgare copioso, orgogliosi di rappresentare in questo modo le loro origini, l’appartenenza a quel crogiuolo di culture che è la natia New Orleans. Il lerciume e la parte derelitta, sfatta all’inverosimile, del repertorio sembrano essere andate smarrite, o perlomeno disciolte, disperse tra chitarre marciotte ma essenziali, indubbiamente avvelenate e caustiche, però ripulite dalle psicosi e incentrate piuttosto su una lotta cocciuta contro il sistema, secondo metodi da guerriglia urbana. Si volge quasi più lo sguardo al punk albionico alla GBH che all’hardcore nichilista e al crust che inzuppava gli Eyehategod in passato. Quella tempesta di feedback, di decomposizione chitarristica ai limiti del rumorismo che faceva tremare e sudare sporcizia lo stereo in “Take As Needed For Pain” e “Dopesick”, qui la ritroviamo solo a tratti, sostituita dalla nostalgia per i sempiterni Black Sabbath. La scoperta dell’acqua calda, direte voi, perché che Iommi e Ozzy siano sempre stati osannati dagli sfatti musicisti di New Orleans non è un mistero, però in questo caso non si parte da una vaga reminescenza per arrivare da tutt’altra parte, si va proprio a rileggere alla lettera, aggiustandolo agli standard di produzione attuali e al suono tipico degli Eyehategod, il songbook dei padri fondatori del metal. Il processo di revisionismo è evidentissimo nella tripletta “Quitter’s Offensive” – “Nobody Told Me” – “Worthless Rescue”, ma aleggia praticamente ovunque nel disco. Il chitarrismo è sensibilmente meno paludoso, non si trascina più rantolante come un barbone senza gambe in una periferia malfamata, Bower e Patton hanno ripulito le corde dei loro strumenti e paiono vogliosi di andare ad abbracciare e omaggiare sonorità datate. Non è cambiata di una virgola la vocalità di Mike Williams, e su questo avevamo pochi dubbi viste le ottime performance live tenute in anni recenti. Il rancido vociare del singer professa miserie assortite, decrepiti scenari urbani popolati da un’umanità distrutta, in pieno cortocircuito, abbindolata e messa in ginocchio da un sistema che mette in disparte chi non si adegua e non sa, o non vuole, tenere il passo della schizofrenia del vivere moderno. Le terribili conseguenze di errori commessi nella propria esistenza trovano il loro cantore in Williams, per nulla ammosciato rispetto alle raccapriccianti performance passate. Il resto, si diceva, è parecchio ripulito, anche a causa di una produzione cristallina e cromata, molto diversa rispetto agli standard abituali della band. Anche le partiture ideologicamente più spregevoli, con questi suoni abbastanza rifiniti, suonano smorzate negli effetti, si fermano sulla soglia del dolore senza maciullare i nervi come accadeva di solito. Le affabulazioni blues lasciano perplessi anche quando ci si è fatti il callo a ritrovarsele un po’ dappertutto, si fatica a capire perché gli Eyehategod vi abbiano fatto ricorso così abbondantemente, soprattutto nella prima metà del disco. Ritroviamo la malattia perduta giusto in “Flags And Cities Bounded” e “The Age Of Boot Camp”, più cupe e nervose della media, e in qualche rigurgito qua e là nelle altre tracce. Purtroppo, nel complesso, “Eyehategod” fa davvero fatica a tenere il passo degli illustri predecessori. Possibile che il quinto album rappresenti l’entrata nel crepuscolo per la storia artistica di Jimmy Bower e compagni? Il domani ci chiarirà meglio la questione, per ora annotiamo con un filo di dispiacere questo mezzo passo falso.