FAITH NO MORE – Angel Dust

Pubblicato il 11/04/2016 da
voto
9.0
  • Band: FAITH NO MORE
  • Durata: 00:58:43
  • Disponibile dal: 08/06/1992
  • Etichetta:
  • London Records
  • Distributore: Warner Bros

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In poco meno di dieci anni di vita, i Faith No More arrivano nel 1992 al traguardo del quarto album con non poche aspettative da parte di critica e pubblico; dopo aver conosciuto i primi successi come interessante new sensation della scena alternativa californiana, grazie ai primi due album molto debitori di quel post-punk che vedeva Killing Joke o PIL tra i naturali riferimenti di Billy Gould e soci, si sono imposti nelle classifiche e nelle orecchie di tutto il mondo grazie a “The Real Thing” e, in particolare, grazie a due colpi da maestro: “Epic”, uno dei pezzi più famigerati ma al tempo stesso indimenticabili dell’intera storia dell’heavy metal, e soprattutto l’ingresso nella band del carismatico, folle e imprevedibile Mike Patton. Che, da ultimo arrivato in quell’album, quando ormai mancavano solo le linee vocali, con “Angel Dust” diventa un compositore alla pari e, probabilmente, anche il leader indiscusso della band. Intendiamoci: sarebbe difficile fare una classifica delle doti musicali presenti in questa formazione. A modo loro, tutti i cinque membri, pur con qualche nota oscillazione alla chitarra, sono stati seminali e sono tuttora musicisti di rilievo; ma con un personaggio come Mike Patton si entra senza dubbio nell’Empireo dei miti, degli inarrivabili, dei Re Mida che trasformano in oro praticamente ogni cosa: e, in questo caso, qualunque genere proposto. Ed è proprio per quest’ultimo punto che “Angel Dust”, a parere di chi vi scrive, rappresenta la vetta insuperabile di una carriera pur integralmente sfolgorante e che, non per nulla, ha raggiunto consensi e apprezzamenti trasversali. Non c’è praticamente un genere musicale che i Nostri non tocchino nelle tredici tracce che compongono la prima stampa di questo album; sì, perché è giusto sottolineare che uno dei loro singoli di massimo successo, la cover di “Easy” dei Commodores, fu aggiunta solo nelle edizioni successive: non è mai stato nelle intenzioni di questa band l’autocompiacimento o il desiderio di inseguire un pubblico piuttosto che un altro, e quindi, quasi a sottolineare questo disinteresse, avevano addirittura escluso dalla tracklist questa ironica ma bellissima restituzione. “Land Of Sunshine” apre le danze, ed è difficile non farsene catturare: un basso sincopatissimo, un andamento funky mediato da una linea di tastiere quasi goth, e finalmente il primo segnale di un cambiamento che diventerà storico: fino a qui, Mike Patton era un enfant prodige un po’ debitore delle prove di cantanti alternative metal come Anthony Kiedis o Angelo Moore, ma basta la prima strofa per capire che quanto a versatilità ed estensione vocale non ce ne fosse più davvero per nessuno. C’è persino spazio per un intermezzo quasi swing, prima di un finale da folle baritono. La successiva “Caffeine” racconta per filo e per segno un esperimento di privazione del sonno compiuto per tre giorni dal folle Mike, che su un tappeto di batteria e tastiera memorabile, riesce a trasmetterci l’intreccio di follia e violenza che la sostanza del titolo gli ha evidentemente provocato in quelle intense settantadue ore. Questo è uno dei pochissimi brani che presenti un qualche riff rilevante di chitarra, e già questo dovrebbe dire molto di questo album. Per citare un’espressione cara a Patton, “attenzione, merdallari”: questo album è violento, intenso, ma non è per orecchie di gusto comune. E lo testimonia il brano seguente e primo singolo estratto, ossia “Midlife Crisis”: la fa ancora da padrona la batteria di Mike Bordin, splendidamente retta da un Roddy Bottum in stato di grazia alle tastiere, mentre le linee vocali riescono ad essere insieme maligne e accattivanti. A seguire, possiamo quasi respirare per qualche minuto, con la suggestiva, lenta e sardonica “RV”: il racconto per piano e voce dell’autocommiserazione di un mentecatto che vive in una roulotte; come tanti redneck, probabilmente…ma quante storie di questo tipo di vita sono state magistralmente rese da un corner formidabile e improbabile come in questo caso? E’ tempo di tornare su binari più energici con “Smaller And Smaller”: siamo al riff numero due, ma quasi a voler ridurre ogni sensazione di heavy metal, son sempre le tastiere a rendere la canzone decisamente trascinante, mentre Patton alterna passaggi rochi e vocalizzi di vago gusto orientale, subito raddoppiati senza timore da Jim Martin alla sei corde. Siete stati spiazzati a sufficienza? Bene, è tempo di “Everything’s Ruined”, dove basso e batteria introducono un pezzo schizoide, che passa senza problemi dalla melodia più pop alle soglie del rap metal; più o meno le dinamiche che, qualche traccia dopo, attraversano “Kindergarten”; forse sono i due pezzi più canonici e prevedibili dell’album: sempre che prevedibile si possa dire di brani di una qualità che il 99% delle band nu-metal non ha nemmeno mai sfiorato. Violenza estrema è la parola d’ordine per “Malpractice”, tra voce filtrata o sguaiata senza soluzione di continuità, una sezione ritmica forsennata e l’apice del buon gusto di Bottum: gli applausi qui sono per lui e per il suo intermezzo di tastiera che parte dalle parti degli Sparks, inserisce un campionamento da brividi di Shostakovic e, in soli trenta secondi, mette in un angolo tutta la cattiveria magniloquente dell’allora nascente symphonic black metal, provare per credere. “Be Aggressive” parla di fellatio omosessuale con un coro di bambini a sillabare il ritornello e delle tastiere da film horror della Hammer come base: permettetemi di ritenere sufficiente questa frase per esprimere amore eterno per questo spiazzante pezzo. “A Small Victory” si apre con un quartetto d’archi campionato, a costruire il pezzo più melodico dell’album, dove però i Faith No More dimostrano che, proprio, non vogliono vincere facile; nuovamente Billy Gould, sinceramente eterna spina dorsale della band, inserisce le sue maestose linee di basso in controtempo, mentre Mike Patton alterna almeno tre stili vocali, prima di affidarsi all’atonia autoferenziale dell’ultima strofa: “If I speak at one constant volume/at one constant pitch/at one constant rhythm/right into your ear, you still won’t hear”. Forse, l’unica frase non sarcastica o criptica mai scritta da Mike Patton, a renderci chiaro che non coglieremo mai completamente, o non capiremo, quanto esce dalla sua magica ugola. Campionamenti su campionamenti percorrono questo album, anche nella semplice forma di un annuncio aeroportuale; una voce flautata ci fa così rilassare sul riff di wah-wah e basso in apertura di “Crack Hitler”, giusto per spiazzarci nuovamente appena attacca la strofa: quattro strumenti suonano quattro generi diversi, la voce arriva da un megafono (iniziano le sperimentazioni tecnologiche del cantante, che tante gioie regaleranno negli anni), e riescono anche, con splendido cattivo gusto, a regalarci un coro di ‘Heil! Heil!’ nel bridge. Vi ricordate Scooby-Doo e l’abitudine del doppio finale per ogni episodio? Ecco, questo era il minimo che potessero fare i Faith No More come chiusura del loro masterpiece. Prima “Jizzlober”, dove il suono di una palude fa da base alla massima asprezza vocale raggiunta finora, mentre a seguire l’imprevedibile singer si dedica alla diamonica e il quintetto californiano ci saluta con uno strumentale tratto da uno struggente film con Dustin Hoffman. Musicalmente, non si poteva davvero aggiungere altro; parafrasando (parecchio) Shakespeare, “imprevedibilità, il tuo numero è Faith No More”. Sempre siano lodati

TRACKLIST

  1. Land of Sunshine
  2. Caffeine
  3. Midlife Crisis
  4. RV
  5. Smaller and Smaller
  6. Everything's Ruined
  7. Malpractice
  8. Kindergarten
  9. Be Aggressive
  10. A Small Victory
  11. Crack Hitler
  12. Jizzlobber
  13. Midnight Cowboy
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