
5.5
- Band: FALLUJAH
- Durata: 00:42:19
- Disponibile dal: 13/06/2025
- Etichetta:
- Nuclear Blast
Spotify:
Apple Music:
Non che avessimo bisogno di ulteriori conferme, dopo la svolta intrapresa a partire dall’uscita del frontman/membro originario Alex Hofmann, ma il nuovo “Xenotaph”, edito ancora una volta da Nuclear Blast, ci rammenta come i Fallujah autori di lavori riusciti e personali come l’EP “-Nomadic-” o il full-length “The Flesh Prevails” siano ormai un ricordo evanescente, sospeso nella nebulosa di una galassia sempre più lontana da quella esplorata oggigiorno dal quartetto californiano.
Di quella band in grado di prendere un certo tipo di techno-death/death-core anni Duemila e condurlo morbidamente in una dimensione ariosa e celestiale, fra intelaiature progressive e substrati ambient degni di realtà come Cynic e Devin Townsend, è rimasto appunto ben poco, con il chitarrista Scott Carstairs che, imperterrito, instrada la propria creatura su binari espressivi dove lo sfoggio di maestria prende puntualmente il sopravvento sulle fondamenta dei brani.
Un turbinio di note e finezze che, oltre a sottolineare la presuntuosità dell’operazione, suona spesso asettico, confuso e privo di soluzioni effettivamente ingegnose e memorabili, come se i Nostri, nel loro insistere sui cosiddetti ‘effetti speciali’, avessero perso di vista i concetti di emotività e sostanza, affrancandosi parallelamente da quella sensibilità atmosferica che, fino a “Dreamless” (2016), sembrava ne rappresentasse un tratto distintivo e necessario.
Il problema di “Xenotaph” non va quindi rintracciato soltanto nel ridimensionamento delle ambizioni e della personalità, nel 2025 ascrivibili a quelle di realtà non propriamente eccelse come Arkaik o Inanimate Existence, ma in pezzi spesso fuori fuoco e poveri di passaggi o soluzioni sopra la media, i quali finiscono per arrancare sia durante le parentesi aggressive (o pseudo tali), sia nei momenti in cui il gruppo di San Francisco decide di ricorrere alla melodia, affidando a Kyle Schaefer delle voci pulite tutt’altro che evocative o catchy.
Il risultato finale, quindi, può anche ricordare quello conseguito non troppo tempo fa dagli Obscura di Steffen Kummerer: un album convinto che la sola tecnica possa bastare a farlo brillare, e che dietro l’esplosione di assoli, cambi di tempo e fraseggi arzigogolati manca dell’efficacia e della fluidità a livello compositivo per incidere, con episodi a tratti estenuanti come “Step Through the Portal and Breathe” o la title-track a fotografare – insieme al tragicomico video di “Labyrinth of Stone” – un ritorno (l’ennesimo) definibile presto come inconsistente.