8.0
- Band: FATES WARNING
- Durata: 00:52:21
- Disponibile dal: 07/01/2016
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Sony
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I Fates Warning erano scomparsi dopo “FWX”, nel 2004. Ben dieci anni di silenzio seguirono infatti quella non fortunatissima release, dieci anni durante i quali il mastermind, compositore principale e unico fondatore rimasto Jim Matheos ha sfogato la propria creatività altrove, incidendo diversi lavori da solista sotto il suo stesso nome, con la band OSI e anche col monicker di Arch/Matheos. La nostalgia canaglia ha però riportato nel 2013 il meditabondo chitarrista a rilavorare sul pentagramma della propria band madre, ridando il via ad un processo creativo che sul chiudere di quello stesso anno ci ha dato, come primo goloso frutto, l’inatteso ma buono “Darkness In A Different Light”. Per fortuna stavolta non passano dieci anni, e il chitarrista del Massachusetts dà subito alle stampe questo nuovo lavoro, che se da un lato delinea una forte continuità quantomeno sonora col comunque valido predecessore, dall’altra mostra anche di essere un disco di qualità addirittura superiore, pregno di una malinconia e di un’emozionalità forse fin’ora presenti ma non così focalizzate come adesso, salvo nell’indiscusso capolavoro “A Pleasant Shade Of Grey”. Proprio qui sta quindi il nodo da sciogliere per scoprire il reale valore di quest’album: “Theories Of Flight” è infatti un lavoro fortemente soggettivo e molto umorale. Come tale, l’album risulta alle volte un po’ difficile all’ascolto e non si offre quindi all’utente facilmente, una volta entrati nel mood però mostra una stratificazione e una ricchezza, sia musicale che lirica, davvero ragguardevole. Appena si pigia sul bottone del ‘play’ ci si proietta subito sui tetti di una pittoresca città immaginaria con “From The Rooftop”, rimanendo immediatamente avvolti da soluzioni sonore calde e liquide. Un arpeggio pulito ma carico di effetti supporta come su onde irrequiete una linea vocale particolarmente morbida di Ray Alder, mentre un lento ma vibrante solo del guest Frank Aresti dona al pezzo la giusta ascoltabilità. Da questo paesaggio dipinto un po’ a colori poco definiti – come con degli acquarelli – si passa poi però subito a tempi ben più quadrati e definiti, col metronomico batterista Bobby Jarzombeck a sottolineare subito con la solita strepitosa bravura uno dei passaggi più tecnici, sia per la batteria che per la chitarra, di tutto l’album. Più fruibile e diretta rispetto all’opener si rivela la successiva “Seven Stars”, che se anche inizia con una sezione ritmica e soluzioni chitarristiche più vicine ai Redemption che ai Fates Warning, prosegue poi con una linea vocale ben definita, cantata in maniera molto orecchiabile da Alder all’altezza del refrain. “SOS” pare concedere forse qualcosina in termini della sopracitata emozionalità e malinconia in favore di un piglio più aggressivo, ma si rivela anch’essa un ottimo tassello in questa posizione, un altro pezzo diretto e relativamente breve prima che la lunga suite “The Light And The Shade Of Things” prenda il controllo delle sonorità dell’album. Similarmente alla già descritta opener, questa lunga traccia si snoda attraverso i suoi dieci minuti di durata con una varietà di umori e sensazioni sbalordente riuscendo, proprio grazie a questa sua ecletticità, nel difficile compito di non smarrire troppo l’ascoltatore. “White Flag” e “Like Stars Our Eyes Have Seen” mettono entrambe l’accento sull’aspetto più tipicamente progressive, rivelandosi presto come passaggi fondamentali per l’economia del disco: la prima grazie a una ritrovata aggressività che crea un muro di chitarre molto spesso, e la seconda grazie invece a un ottimo ritornello del solito, grande, Alder. Il colpo migliore l’album però lo deve ancora sparare, e quella piccola gemma di “The Ghost Of Home”, la seconda suite dell’album, ci terrà mestamente compagnia per gli ultimi dieci minuti prima della chiusura, rapendoci con la sua sofferta emozionalità e col suo mood carico di malinconia. Le tende si chiudono sull’ultimo pezzo, la sospesa title track, piccola gemma strumentale che mette nuovamente sugli scudi il bravissimo Jarzomback, stavolta assieme però al compagno di sezione ritmica Vera, anche lui decisamente ‘sul pezzo’. Con questi otto brani si chiude quindi questo inatteso ma graditissimo ritorno discografico di uno dei colossi del metal progressivo statunitense: un ritorno d’alta classe, di cui siamo decisamente molto contenti.