8.0
- Band: FEAR FACTORY
- Durata: 00:59:13
- Disponibile dal: 30/04/2004
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Universal
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
La “Fabbrica della Paura” è di nuovo tra noi. Si è auto-ricostruita, dopo essersi auto-terminata. Lo scheletro d’adamantio, immortale, ha generato nuovi tessuti, con i quali ricreare un’immagine il più possibile vicina a quella primigenia. La versione aggiornata, nata da rovine incenerite ma pregne di ricordi, ha convogliato i vecchi input e quelli attuali in un database nuovo di zecca, ma la cui matrice è senza dubbio l’archetipo di una stirpe, di un genere. E proprio “Archetype” è il titolo del disco che rilancia alla grande le quotazioni dei Fear Factory nella cosmogonia del Metallo Pesante: il precedente album, “Digimortal”, una cocente delusione, aveva presentato la band in una scadentissima versione plastificata, quasi del tutto privata delle connessioni d’acciaio che, fino ad allora, l’avevano sempre contraddistinta, anche quando il sistema aveva autonomamente cercato altre valvole di sfogo [leggi: “Fear Is The Mindkiller” e il contestatissimo, ma ottimo, “Remanufacture (Cloning Technology)”]; uno degli ingranaggi principali della macchina, il chitarrista messicano Dino Cazares, è stato additato quale primo responsabile della mutazione in atto nel gruppo, quale virus annidatosi fra le pieghe di ferite mai cicatrizzatesi del tutto; la macchina è stata perciò disconnessa, con gesto provocatorio, dal cantante Burton C. Bell, nella speranza di poterla rivedere presto in una veste ancor più cromata e terrificante. Dino se ne è andato, quindi, e i Fear Factory sono rinati, traslando microchip e riconnettendo collegamenti: il bassista belga Christian Olde Wolbers è passato alla chitarra, mentre da un’altra unità androide, tale Strapping Young Lad, è stato prelevato ed installato al basso il gigante canadese Byron Stroud. Ed un bene è stato, per chiunque, che il motore propulsivo e l’arma più potente della formazione siano rimasti immutati e si siano conservati benissimo, durante il periodo d’ibernazione: Raymond Herrera e Burton C. Bell, infatti, si presentano, in “Archetype”, in forma smagliante e guidano con pieni poteri il primo atto della rivincita che i Fear Factory si prenderanno su chi li credeva finiti! Già, perché l’album in questione sotterra in modo totale la precedente release e, seppur perdendo molto della sublime visionarietà di “Obsolete” (per chi scrive, il loro album migliore), rispolvera l’aggressione meccanizzata ed inquietante di “Demanufacture”, lasciando intuire anche come “Soul Of A New Machine” non sia stato assolutamente dimenticato (ascoltare in tal senso la brutale “Cyberwaste”, forse il pezzo più devastante mai scritto dalla band, assieme a “New Breed” e “Arise Above Oppression”). “Slave Labor”, “Act Of God”, “Bonescraper”, “Default Judgement” e “Undercurrent” uniscono le classiche ritmiche robotiche e iper-groovy di Herrera alle esplosioni melodiche del cantato di Burton C. Bell, finalmente tornato anche a sfoderare un growl micidiale. “Drones” (per l’inizio della quale fischieranno le orecchie ai Six Feet Under di “Lycanthropy”), “Bite The Hand That Bleeds” e, soprattutto, l’emozionante “Human Shields” danno attimi di tregua, mentre la title-track e “Corporate Cloning” sono le song un attimino meno riuscite, con delle strofe perlomeno discutibili. Interessante e riuscita l’idea di proporre la cover di “School” dei Nirvana a fondo disco, mentre è incredibile come i Fear Factory riescano a rendere bellissima anche “Ascension”, una “canzone” di sette minuti basata solamente su campionamenti e rumorini vari, atti a donare un briciolo di pace, una parziale tregua, come se la macchina si riaddormentasse di nuovo, posizionandosi in stand-by. Che dire ancora? Uno dei must dell’anno, di sicuro! La macchina si è rimessa in moto, a bulloni ben avvitati, lucidata ed oliata per bene. La macchina è di metallo, questa musica É metallo! Disco obbligatorio, di conseguenza, per quelli come noi.