9.0
- Band: FEAR FACTORY
- Durata: 00:55:12
- Disponibile dal: 16/06/1995
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Self
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Nel 1995 – come usano narrare le molte recensioni stilate oggigiorno e riguardanti circa un ventennio fa – l’heavy metal tutto, ma soprattutto quello estremo, era in balia delle correnti musicali fortemente in auge in quel periodo, partendo dall’epopea in flanella del grunge, passando per la ri-esplosione del punk-rock di Green Day, The Offspring, Rancid e NoFX, fino ad arrivare addirittura alla bruttura devastante dell’effeminato brit-pop. Eppure…eppure, rientrando un attimo in coordinate più consone ai nostri gusti, sempre in quegli anni: il death metal è ormai svezzato dall’underground e si riversa, dalla Svezia fino alla Florida, un po’ ovunque; il black metal azzarda la sua impervia scalata commerciale grazie alla sottocorrente sinfonica; il doom, dal canto suo, sta stagnando nel suo sottobosco mentre copula allegramente con il death ed il neonato gothic di britannica origine. E che dire poi dei Pantera, dei Machine Head e dei Sepultura, che hanno appena ereditato lo scettro dei pesi massimi del thrash metal, innervandone le veloci e sferraglianti caratteristiche con pesantissime dosi di groove? Insomma, tutto ciò per inquadrare minimamente lo scenario in cui entrano in scena i protagonisti di questo Bellissimo: i Fear Factory. Il 16 giugno 1995 – giorno della pubblicazione di “Demanufacture” – il Metallo Pesante realizza un ampio scorcio del suo futuro, una fiamma improvvisa e abbagliante che illumina scheletri cromati, un gelo abissale e assordanti rumori elettro-cibernetici. “Terminator 2 – Il Giorno del Giudizio” è uscito nei cinema ben quattro anni prima, diventando presto un film di successo mondiale e incarnando alla perfezione, nonchè anticipandole di parecchio, le possibili conseguenze per l’Umano nel caso in cui le Macchine dovessero trovare il modo di rivoltarsi e prendere il sopravvento. Ecco, è piuttosto superfluo rimarcare quanto “Demanufacture” stia alla musica metal quanto “Terminator 2” stia alla cinematografia. Ma la band guidata dal chitarrista messicano Dino Cazares e dal vocalist americano Burton C. Bell non nasce con il succitato disco, bensì qualche tempo prima, grazie alla pubblicazione dell’esordio “Soul Of A New Machine”. L’album non ottiene enormi lodi e passa piuttosto inosservato, nonostante contenga brani validissimi (ancor oggi proposti dai Nostri in sede live) e sia il perfetto precursore di ciò che conterrà da lì a poco il futuro della band losangelina. Mantenendo la allora fondamentale Roadrunner Records quale etichetta discografica e ricorrendo nuovamente ai prodigi del guru inglese Colin Richardson in cabina di regia, i Fear Factory si rimboccano le maniche e magicamente creano il loro personale T-1000, distruttivo e mutaforma. I residui grind e death vengono smussati, il sound viene incanalato in un monolite più comprensibile di riff serrati e groove-oriented, l’immensa batteria di Raymond Herrera si lascia triggerare all’inverosimile, divenendo una sorta di pistone pneumatico inarrestabile e saldamente connesso alle strutture chitarristiche e di basso – le parti di basso, attenzione, sono ad opera di Cazares, in quanto Christian Olde Wolbers verrà sì accreditato come membro della formazione, ma senza aver registrato ancora niente in studio. Il cambiamento decisivo e più ‘impressionante’, il cosiddetto quid in più che probabilmente determina l’esplosione commerciale del gruppo, avviene però al microfono: Bell aumenta in maniera esponenziale e le rende trade-mark epocali le sue clean vocals, creando distopie sonore dall’impatto apocalittico e visionario, generando chorus che tuttora restano fra i più memorizzabili della loro carriera. Sebbene i Fear Factory, all’epoca, siano essenzialmente un terzetto (Cazares, Herrera e Bell), in attesa dell’entrata ufficiale di Olde Wolbers, è più che corretto citare un personaggio fondamentale nello sviluppo del famigerato suono della Fabbrica della Paura: Rhys Fulber, musicista e produttore canadese, un vero mago dell’elettronica e della sua effettistica. Sono infatti suoi i temibili e robotici arrangiamenti electro di “Demanufacture” – e, in seguito, della quasi totalità dei lavori dei Fear Factory – passanti da ariosi tappeti di epiche tastiere a mo’ di sottofondo per i ritornelli puliti a veri e propri innesti trance, techno e industrial, in grado di puntellare, senza mai sforare nel pacchiano o nel ‘fuoriluogo in un disco metal’, le vincenti composizioni della formazione americana. “Zero Signal”, ad esempio, ci pare il brano che meglio spieghi l’ottimo inserimento di Fulber nel suono della band, avente al suo interno tutte le diverse possibilità che il musicista riversa nel lavoro, chiudendo il pezzo addirittura con delle toccanti e lugubri note di pianoforte (finto o vero che sia). Certo, la prepotenza nichilista devota al devasto di “New Breed” – per chi scrive l’apice di “Demanufacture” – non è da meno, carichissima e drogata da input, loop e pulsioni elettroniche che sfociano in un gabber-grindcore pauroso; Burton, in questo episodio, rinuncia alla sua dose di voce pulita per riversarla appieno nella ipnotica e martellante “Dog Day Sunrise”, cover degli Head Of David, la band di Justin Broadrick prima che quest’ultimo scegliesse di dedicarsi appieno ai principali Godflesh: remake notevolmente energizzato e velocizzato dalla produzione di Richardson e dal dinamismo dei Nostri, che pagano tributo alle radici industrial con gusto e capacità. Come leggete, stiamo divagando a piacere nei meandri di una tracklist che ha zero punti deboli e zero cali e nella quale si possono davvero trovare tutti gli elementi che hanno reso famoso il gruppo, definendone peculiarità e colpi da maestro. Ma è praticamente inevitabile non soffermarsi un attimo sulle prime frecce dell’arco di “Demanufacture”: se di “Zero Signal” abbiamo già scritto, l’accoppiata iniziale formata dalla title-track e da “Self Bias Resistor” è di quelle che mettono KO: paragonabile a incipit da infarto in voga in quegli anni – ci vengono in mente “Refuse/Resist”+”Territory” da “Chaos AD” dei Sepultura oppure “Davidian”+”Old” da “Burn My Eyes” dei Machine Head – la partenza del nostro Bellissimo mette a tacere subito ogni dubbio presente, deflagrando imponente grazie all’impatto pressorio delle drums, alla crudezza dei riff e alla duttilità espressiva di una voce praticamente mai sentita e originalissima, capace di costruire melodie quasi-pop e farle sdraiare docilmente sulle possenti basi cyber-metal. “Replica” invece, pur restando tuttoggi la canzone più famosa di Dinone & Co., ci pare un pelo inferiore agli altri highlight del lavoro, forse ormai inflazionata e resa ‘vecchia’ dai numerosissimi ascolti effettuati in diverse situazioni. Il già citato spartiacque “Dog Day Sunrise” offre una pausa canicolare dall’incessante pulsare del motore Fear Factory, prima di far decollare, grazie all’ispiratissimo riff tetragono che apre “Body Hammer”, una seconda parte di album altrettanto magistrale, seppur oscurata dalla grandeur visionaria della prima. Proprio “Body Hammer” è da segnalare tra le track più sottovalutate dell’intera discografia del gruppo, una perla forse mai uscita dalla sua ostrica scolpita in lega di titanio. A seguire, fulminee e abrasive anche loro, ecco la diretta e bruciante “Flashpoint”, “H-K (Hunter-Killer)”, con il ripetersi ossessivo del folle manifesto ‘I am a criminal’, e “Pisschrist”, profonda e multi-ritmica fino all’impressionante chorus finale terminante nel disperato e ripetuto ‘where is your saviour now?’. La chiosa ambient-industrial, dalle atmosfere cupissime e claustrofobiche, affidata a “A Therapy For Pain” serve ovviamente a placare del tutto gli animi, a concedersi alla morte dei sensi, a riflettere sull’ormai fatto e a tentare di carpire nuove speranze sul da farsi; un ideale epilogo introspettivo e retrospettivo dopo un pieno totale di massacro e trigger imperanti. Un platter, dunque, fra i più riusciti e di successo degli anni Novanta tutti; canzoni che hanno segnato l’adolescenza di molti di noi fornendo una musica plausibile agli scenari di distruzione apocalittica che la sempre più crescente informatizzazione del nostro sistema prevedeva e, in parte, prevede ancor oggi. Undici file di ribellione e glaciale deumanizzazione che ci ricordano spietatamente quanto anche l’Uomo, prima o poi, debba iniziare a tramontare.