9.0
- Band: FEAR FACTORY
- Durata: 00:55:13
- Disponibile dal: 08/09/1992
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Self
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In principio erano i Ministry, poi i Godflesh furono presso di loro; ma tocca ai Fear Factory nel 1992, con questo album, dare una forma compiuta alla commistione tra metal e industrial, in cui la prima componente non fosse in secondo piano, e potesse così colpire come un maglio d’acciaio anche i cuori dei metalhead più intransigenti. Un incontro di stili che può apparire oggi quasi scontato, ma che non era tale ben ventisei anni fa; delle due band citate sopra, i primi venivano dalla new wave e fu un colpo di genio (o il frutto del consumo di droga) l’aggiunta di determinate sonorità. I Godflesh, d’altro canto, nonostante la presenza in formazione di un peso massimo del grind come Justin Broadrick, riuscirono a modernizzare la proposta di band seminali come Throbbing Gristle alla luce dell’esperienza di Killing Joke et similia; ma appunto serviva ancora qualcosa, al tempo, per definire appieno ‘industrial metal’ questo genere: ci volevano tutte le influenze di cui sopra, confessate in interviste e in svariate cover dai Fear Factory nel corso degli anni. Poi le visioni apocalittiche di David Cronenberg declinate in musica, il gelo dello spazio profondo reso dalla voce mirabile di Burton C. Bell e il riffing spaccaossa di Dino Cazares. Ci voleva “Soul Of A New Machine”, un titolo e un manifesto programmatico insieme, che si apre con una traccia ancora oggi iconica come “Martyr”: da subito è come aprire una presa elettrica e infilare dentro le dita per farsi attraversare dalla violenza catartica di un ibrido adrenalinico ed esaltante; che alterna ritmiche in tre quarti da stomp a rallentamenti atmosferici che mostrano i primi segni della versatilità vocale del biondo frontman. Da qui, tutto è in discesa, ma non per questo semplice: “Leechmaster” e “Scapegoat” sono metafore di una società alienata che ci lascia nella successiva “Crisis” in terra a boccheggiare sotto il rullo compressore di basso e chitarra; e, proprio come i loro maestri Ministry in “The Mind Is A Terrible Thing To Taste”, qui i Fear Factory inseriscono un sample di “Full Metal Jacket” – quello relativo alla simbiosi tra marine e fucile – a rendere il tutto ancora più disumanizzante. “Crash Test” inizia a moltiplicare i sample – sebbene solo in apertura di un brano per il resto quasi grind – proprio come la successiva “Flesh Hold”, mentre “Lifeblind” sono i Laibach trasferitisi in California: ritmiche dispari e quasi dolorose che portano sugli scudi violenza verbale, almeno fino alla parte conclusiva, dove Burton C. Bell dà sfogo ad uno dei suoi momenti più espressivi; per arrivare a guidare la seguente “Scumgrief” tra grida e melodie in coppia con Andrew Shives al basso. A metà esatta dell’album, ecco un intermezzo rumoristico di appena un minuto: quasi paradossale, fa l’effetto della scatola misteriosa di “Mulholland Drive” di David Lynch, che quando viene aperta ci catapulta in un mondo (ancora più) distopico e convulso. È il momento della seconda parte del disco, ove le visioni di fine millennio offerte dai Fear Factory si fanno violente, cupe, prive di speranza: “Big God/Raped Souls” alterna brutal death e la caratteristica voce da angelo (caduto) di Burton, al tempo semplicemente straordinario, anche quando racconta degli orrori dello stupro come piaga sociale. Episodi come “Arise Above Oppression”, “Self Immolation” o “W.O.E” sono rasoiate molto dirette in perfetto equilibrio tra violenza di strada ed estetica cyberpunk, in cui prosegue la discesa attraverso gli inferi metropolitani a ritmi spasmodici; e un piccolo gioiello si staglia sugli altri brani: è “Suffer Age”, primo brano mai composto dal premiato duo Cazares/Herrera, in cui il suono acuto e quasi irreale della chitarra viene presto raddoppiato dalla sezione ritmica soffocante: restano solo dei gorgheggi a darci speranza, prima della trasformazione in un duetto tra quello che è forse il primo riff apertamente djent della storia e la cattiveria vomitata dall’ugola di Bell. Il terzetto finale ci saluta a pugni in faccia, dalle ritmiche violentissime di “Desecrate”, passando per gli arpeggi (illusori) di “Escape Confusion”, molto più ritmata ma equivalente a una colata di acido caldo nel timpano e con un Herrera in stato di grazia, e la chiusura affidata senza quasi soluzione di continuità a “Manipulation”: i Napalm Death incontrano l’insensibilità delle macchine e ne esce un ibrido assassino come Terminator. Poco più di sei mesi dopo, è il tempo di “Fear Is The Mindkiller”: una serie di remix delle tracce di quest’album in chiave trance o dance, che fece storcere il naso a molti, ma godere dell’evidente manifestazione di libertà creativa parecchi altri. Poi l’addio di Shives, in effetti non il loro bassista più iconico, e quindi il tempo del ritorno in scena con Christian Olde Wolbers alle quattro corde (e poi, in futuro, chitarrista per alcuni anni). È il 1995, l’album si chiama “Demanufacture” e significa l’arrivo del successo planetario; meritato, data la qualità di quel secondo full length, ma se vogliamo parlare di genio e di come nascano nuovi modi di intendere la musica, è necessario partire da questo gioiello e farsi abradere il corpo e la mente: “Soffri, bastardo!”, come recita a ragione la prima traccia.