8.5
- Band: FLESHGOD APOCALYPSE
- Durata: 00:43:26
- Disponibile dal: 23/08/2024
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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“Opera” odora di libertà, se dovessimo definirlo con pochissime parole. Tra l’altro, non stiamo dando una accezione biografica a questa definizione – anche se avremmo potuto – visto che tra il precedente “Veleno” e questo nuovo lavoro sono passati ben sei anni, con una pandemia in mezzo e un incidente sportivo che ha tenuto il leader Francesco Paoli per un po’ lontano dalle scene musicali. Comunque sia, il nuovo disco dei Fleshgod Apocalypse odora di libertà, perché, a nostro avviso, la formazione italiana ha finalmente spiccato il volo per una dimensione musicale più ampia.
Non che tutto sia stato così improvviso, anzi: semplicemente, le influenze che emergevano in brani come “Monnalisa”, “Absinthe” e “Pissing On The Score” nel precedente “Veleno” si sono fatte ancora più strada, sganciando le strutture portanti dei Fleshgod Apocalypse dal death metal di natura sinfonica. Mai come ora, la band nostrana ha avuto singoli così prepotenti, vari e volutamente ‘commerciali’ come l’opener “I Can Never Die”; mai come ora, le soluzioni della voce femminile di Veronica Bordacchini si liberano da corsie solamente operistiche e, in generale, mai come ora si sente la voglia di fare un disco accattivante, rappresentativo e divertente, che possa piacere a profili di ascoltatori diversi.
Attenzione, però: “Opera” non è un disco ‘da classifica’, visto che, nei suoi tre quarti d’ora scarsi, di metal estremo ce n’è ancora parecchio, a partire dai muri di doppia cassa, passando per le orchestrazioni che ricordano i Therion migliori, la voce in growl di Francesco Paoli, i bellissimi assoli di chitarra di Fabio Bartoletti. Eppure, si stagliano all’orizzonte anche universi un po’ -core (“Pendulum”), immaginari alla Savatage (“Til Death Do Us Part”), qualche influenza crossover/nu (noi ci sentiamo i migliori Pain di Peter Tagtgren, in “Bloodclock”), nuovamente gli In Flames (“Matricide 8.21”), altro metal prepotentemente barocco come avrebbe potuto anche farlo Alexi Laiho (“Morphine Waltz”), più lo struggente pianoforte in apertura e chiusura.
Potremmo stare qui a cercare altri mille tocchi ed influenze – ascolto dopo ascolto – tanto che ci sentiamo, per una volta, di osservare il lavoro nel suo complesso. “Opera” per noi rappresenta davvero il riassunto perfetto di cosa può essere il metal oggi, nella sua complessità di generi, ma allo stesso tempo nelle sue caratteristiche fondanti.
Ci sarà ovviamente chi storcerà il naso, visto che stiamo parlando di un prodotto in grado di comunicare con molte persone, forse troppe. Chi scrive però è genuinamente convinto che esistano molteplici dimensioni di ‘metal’ nel 2024: una underground, che nasce, vive e muore per scelta nelle cantine/sale prova e nei club da cinquanta spettatori; ne esiste però innegabilmente un’altra, che parte con gli stessi presupposti, ma che poi magari finisce per suonare alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi. Con “Opera”, se mai ce ne fosse stato bisogno, i Fleshgod Apocalypse confermano di appartenere alla seconda categoria. Di diritto.