7.5
- Band: FULCI
- Durata: 00:32:45
- Disponibile dal: 09/08/2024
- Etichetta:
- 20 Buck Spin
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Dopo l’esperimento di “Exhumed Information” – di fatto, un EP mascherato da full-length, con cinque brani propriamente metal accompagnati da un corrispettivo di pezzi di matrice elettro-horror – i Fulci riabbracciano l’organicità di “Tropical Sun” per licenziare il disco che, verosimilmente, ne consacrerà una volta per tutte il nome all’interno della scena death metal contemporanea.
Un’opera che, da un lato, rafforza l’immaginario espressivo-estetico dei capitoli precedenti, come sempre basato sulla venerazione di certo death metal americano e della filmografia del ‘Godfather of gore’ omonimo, e che dall’altro, complici un songwriting sempre più ambizioso e l’ampliamento della line-up da tre a cinque elementi, alza la posta in gioco affrancandosi dai punti di riferimento più ignoranti e cavernicoli (Devourment, Mortician, ecc.).
Prendendo le mosse dal cult “Lo squartatore di New York”, thriller/slasher imbevuto di morbosità, nichilismo e di immagini di una Grande Mela a dir poco ostile e depravata, l’album vede i Nostri spostarsi con insistenza su quel suono compatto e ingegnoso, feroce e orecchiabile dei Cannibal Corpse con George Fisher al microfono, accelerando notevolmente le ritmiche, incrementando il numero di riff e cambi di tempo e – in parallelo – affinando le arie macabre e atmosferiche del proprio lato ‘cinematografico’, con la conseguenza che l’ascolto della tracklist si configura sia come il più violento, sia come il più melodico fra quelli regalatici da Dome e compagni.
Un incedere preciso e al contempo spigliato, da cui emerge chiara l’intenzione della band di portare il materiale su un altro livello di ‘raffinatezza’ e densità rispetto al passato, senza però rinunciare al piglio percussivo (con un groove montante che qua e là tradisce il background hardcore dei musicisti) che ne ha costruito la fama nell’underground. Episodi asciutti nel minutaggio ma ricchi se si guarda alle soluzioni impilate dal lavoro di chitarra e dalla sezione ritmica, con scambi puntualmente dinamici a sottolineare l’approccio a metà strada fra barbarie e tecnicismo del progetto originario di Caserta, per una base assai vivace su cui le growling vocals di Fiore fanno poi il bello e il cattivo tempo.
Un flusso, quello di “Duck Face Killings”, in grado di omaggiare scrupolosamente lo stile di Tampa e dintorni riuscendo però a metterci del suo (vedasi la parentesi hip-hop di “Knife”, il sassofono de “Il miele del diavolo” o le varie punteggiature di sintetizzatori ispirate ai lavori di Carpenter, Frizzi e Simonetti), e in cui ogni dettaglio, dall’artwork di Wes Benscoter alla produzione rifinita da Arthur Rizk, sa effettivamente di raggiunta maturità.
Un album catchy ma non banale, derivativo ma fresco, che con le sue note macchiate di sangue assurge presto a colonna sonora ideale dell’estate, accompagnandoci e divertendoci alla maniera delle vecchie notti horror di Italia Uno. “No time for love, just time to slash”.