GANDHI’S GUNN – The Longer The Beard The Harder The Sound

Pubblicato il 06/11/2012 da
voto
8.0

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Non sappiamo bene come siano saltati fuori questi Gandhi’s Gunn: Genova è una città di mare e per giunta ligure, fatto che implica (in generale) l’assenza di sabbia dall’esperienza quotidiana dei membri del gruppo, vista la geografia fisica della loro regione. Eppure è proprio dalla sabbia che sembrano venire, più precisamente da un’oasi di whiskey affiorata dal deserto. La musica dei Gandhi’s Gunn è un mostro ibrido e bellissimo: una miscela disordinata, disomogenea e altamente infiammabile di stoner, hard rock e attitudine spaccatutto in stile Motorhead (non stiamo dicendo che siano simili in qualche modo, ma solo che pigliano una strada e ci vanno dritti fino al primo muro da sfondare, per poi proseguire). L’ingrediente segreto di questa band consiste in riff dai sapori forti che possono suonare una volta polverosi, mostrando il groove desertico dei Kyuss rivitalizzato da un calore tutto italiano (“Under Siege”), un’altra volta avvelenati di lisergia ammansita da buone maniere à la Zakk Wylde (“Breaking Balance), un’altra ancora alcoolici, in scia a gruppi come i Karma To Burn; ogni canzone su “The Longer The Beard The Heavier The Sound” gode poi di una produzione perfetta per il genere e mostra una lavorazione accurata, di cui abbiamo apprezzato sia l’incisività della sezione ritmica, capace di richiamare l’approccio “primitivo” di gruppi come i Grand Funk Railroad (se non sapete chi sono, è troppo tardi anche per tirarvi le orecchie), sia la graffiante vocalità di Hobo, che strilla quando deve farsi sentire e ammalia quando deve allungare la tensione. Altro aspetto da tenere in considerazione per comprendere questo album è la sua concezione materiale, evidentemente orientata al vinile come rivelato dalla tracklist: otto tracce raggruppate in gruppi di quattro, ogni gruppo chiuso da un lungo pezzo “svarionato” come “Flood”, intenso lentone intriso di quell’epos sabbioso che abbiamo imparato ad apprezzare dai Kyuss e che i Gandhi’s Gunn sanno condire con un personale contorno di passione mediterranea (ibrido raro ed efficace), e come “Hypothesis”, concessione leggermente fricchettona che, dopo un’intro di simil-sitar utile come esercizio di raccoglimento, vi rovescia addosso come pioggia rallentata un mantra saturo di basse frequenze fino ad inglobarvi in un vortice sonoro ovattato, ipotetico incontro tra l’autoreferenzialità rituale degli Electric Wizard di “Let Us Prey” e qualsiasi cosa sia stata partorita musicalmente nel deserto dell’Arizona. Volendo essere pignoli, potremmo ravvisare la mancanza di un pezzo come “Lee Van Cleef”, dal precedente “Thirtyeahs”, però il livello medio delle composizioni è tanto buono da rendere il disco compatto e al contempo fluido nella sua capacità di farsi ascoltare; già che ci siamo, lasciateci evidenziare una curiosa analogia tra gruppo e fluidi non newtoniani (cioè quelli la cui viscosità varia in relazione allo sforzo di taglio applicato: più è intenso più il fluido appare “solido”, meno è intenso più il fluido si comporterà “normalmente”): se quando i Gandhi’s Gunn picchiano sono duri, quando si abbandonano a loro stessi i riff vi coleranno nelle orecchie per riempirle di suggestioni vibranti come l’aria scottata dal sole. Se proprio non detestate questo genere musicale, dunque, fate un favore a voi stessi e scoprite questo gruppo: ascoltatelo di fronte ad un buon bicchiere pieno e accendetevi gli incensi per creare la giusta atmosfera, magari da condividere in compagnia di qualcuno/a che vi faccia bollire il sangue.

PS: proprio questo mese il gruppo ha mutato il suo nome in Isaak, perciò chiunque fosse interessato – per esempio – a vederli dal vivo li cerchi sotto questo monicker.

TRACKLIST

  1. Haywire
  2. Under Siege
  3. Breaking Balance
  4. Flood
  5. Red (The Colour Of God)
  6. Rest Of The Sun
  7. Adrift
  8. Hypothesis
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