7.0
- Band: GHOST BATH
- Durata: 01:03:47
- Disponibile dal: 04/02/2014
- Etichetta:
- Pest Productions
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I Ghost Bath provengono da una megalopoli nell’interno della Cina, Chongqing City. Un posto che probabilmente non sta in cima alla classifica delle città con la miglior qualità della vita, un luogo il cui grigiore, la cui asetticità e lontananza dai grandi flussi culturali deve aver provocato un estremo rigurgito di disperazione ed un tentativo di fuga, ideale e mentale piuttosto che fisico, che ha portato come risultato finale “Funeral”, narrazione di pessimismi assortiti secondo le regole e i modelli del black metal introspettivo e contaminato. Cercando di abbandonare, per quanto possibile, le visioni di orrori cementizi e grappoli di persone in viavai incessante sull’orlo del vuoto concettuale, i quattro musicisti dagli occhi a mandorla hanno distaccato l’anima dal corpo e si sono autotrasportati in boschi silenziosi, vissuti nella loro fase notturna; da qui, ecco fuoriuscire la descrizione drammatica e sofferta della visione di una notte stellata, fotografata nella sua eterna e immutabile bellezza, osservata mentre in lontananza un lupo solitario ulula, rabbioso e rassegnato nel dover vagare lontano dai suoi simili, crogiolandosi nella propria negatività. Magari l’immagine descritta non aderirà perfettamente alle intenzioni della band, ma crediamo che essa abbia davvero voluto allontanarsi dalla densità umana in cui è costretta, per esplorare ambienti solitari e di intatta bellezza. Peccato che questa ricerca non sfoci in una pace dei sensi, ma in una tragica afflizione. I Ghost Bath si rivolgono infatti alle anime in pena, a coloro che per ragioni palesi o nascoste non sorridono, languono in stati umorali ondeggianti fra lo strazio e la malinconia, con un pizzico di malessere che sempre angoscia anche negli attimi di apparente piacere. I Nostri si prostrano alla causa del black metal emozionale e depresso, non sono esenti dalle influenze del black-gaze di Deafheaven e Harakiri For The Sky, e vi affiancano una dose di compiacimento nel proprio dolore degna dei primi Shining e dei Nocturnal Depression. Non bastasse tutto ciò, vi sono quelle arie bucoliche, quell’insistito profumo di natura incontaminata, che potrebbero ricordare le intenzioni del “Cascadian metal” dei Wolves In The Throne Room. Ai Ghost Bath piace partire da una briciola di suono, quasi dal nulla, preferibilmente dal minimalismo di un arpeggio prolungato, e crescere quindi impetuosi, per cavalcare l’onda emozionale e rapire l’attenzione in sussulti di chitarre ispide e indomabili, graffiate dall’imperfezione di suoni poco roboanti e sporchi, che talvolta si vorrebbe più massicci, ma in definitiva ben comunicano la tensione al naturale e al non artefatto a cui i Ghost Bath paiono mirare. Le voglie shoegaze e post-punk portano a quelle dolci melodie stridenti, in crescendo, che abbiamo imparato così bene a conoscere dall’esplosione dei Lantlôs in avanti: in questo caso, pulsa ancora una dose di primitivismo e di beata ingenuità nell’abbracciare questi stilemi che gli act più rinomati del post-black metal hanno oggi tranquillamente sorpassato. L’uso abbondante e caratterizzante degli arpeggi, che sembrano esclamare: “calma, non c’è fretta, indulgiamo ancora un po’ in questa valle di lacrime”, fa emanare una tristezza inconsolabile ad ogni brano. La ricerca del lacrimevole ha la stessa abnegazione della lama che, infilatasi in una ferita, viene rigirata e affondata allo sfinimento. Un discorso a parte lo merita il singer, che insiste nell’ululare alla luna più che a urlare strozzato attraverso un canonico screaming black metal; la scelta è originale e immediatamente distintiva, ma sulla lunga distanza difetta di una piena comunicatività, la voce esagera nell’essere sempre e costantemente sopra le righe, rinuncia in parte alle esigenze espressive per provare a stupire di continuo. La libertà d’espressione covata in seno da questi ragazzi, che arrivano a questo lungo album dopo soli due anni di attività, li porta a una tracklist un po’ incostante, con qualche interludio di troppo e tempi morti all’interno delle canzoni che attutiscono l’effetto sorpresa dei primi ascolti. Da “Calling”, poco oltre il guado di metà disco, in poi, i Ghost Bath si perdono un po’ nel citazionismo di se stessi, riciclando con meno clamore gli espedienti della prima manciata di pezzi. Con una maggiore intensità per tutto il disco staremmo già gridando al miracolo, invece si tratta solamente di un esordio ragguardevole e da valutarsi in prospettiva. Pare in ogni caso che vi sia della buona stoffa metallica in mezzo alla Cina, e per il futuro varrà la pena tenere i radar sintonizzati anche su questa area geografica.