8.0
- Band: GHOST BATH
- Durata: 00:42:06
- Disponibile dal: 10/04/2015
- Etichetta:
- Northern Silence Prod.
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Era l’agosto del 2014, quando vi segnalammo un piccolo gioiello proveniente dal centro della Cina, “Funeral”, un grezzo artefatto di black metal intinto nello shoegaze e nella sottile depressione di chi vede un po’ di grigiore anche nelle giornate più soleggiate. Ne avevamo tessuto le lodi, sottolineando allo stesso tempo le piccole imprecisioni e ingenuità che ne limitavano il passaggio dalla categoria degli album “solo” interessanti, a quelli da avere a tutti i costi. Trasferitisi nel frattempo negli Stati Uniti, questi ragazzi senza volto e senza nome sono passati al livello successivo: non più ensemble di nicchia per pochi curiosi malati dei tag di Bandcamp, ma nome nuovo in odore di incensamento fra i portacolori del suono “alla Deafheaven”, che ha sdoganato il black metal presso pubblici normalmente in fuga a gambe levate al solo sentire proferire i nomi di Marduk, Mayhem, Emperor e compagnia trucida. Mettendoci probabilmente anche un po’ di furbizia, i Ghost Bath hanno capito dove dovevano mettere le mani, si sono accostati fin spudoratamente ai dettami del metal “margheritoso” (aggettivo usato in senso tutt’altro che dispregiativo, sia chiaro) di “Sunbather”, hanno ripulito il suono e perfezionato l’insieme. Non si sono snaturati, sarebbe stato un crimine, soltanto delle molte strade percorse indefessamente nell’esordio, ne hanno scelta una. E sono andati fino in fondo. I toni cupi del depressive si sono disciolti, le inflessioni naturalistiche del cosidetto ‘Cascadian black metal’ ridotte al lumicino, la malinconia si è aperta a una vitalità sorprendente, e tutto il talento insito in “Funeral” e lì rivelato solo in parte, è deflagrato del tutto. Dopo un’intro rarefatta ed ideale, nella sua semplicità, a mettere nelle adeguate condizioni umorali per approcciarci al contenuto di “Moonlover”, irrompe “Golden Number”. E lo fa in maniera fragorosa, luminescente, uno squarcio abbagliante nel buio emotivamente quasi ingestibile. E’ un ebbrezza pari a quella di un salto nel vuoto da un’altezza vertiginosa, per planare in un reame di delizie, uno sbocciare di fiori magnifici, fragranze intense e afrodisiache. L’attacco è estasiante: la batteria si scatena forsennata e trascendente, inframmezzando rullate di euforia trattenuta e vere esplosioni energetiche. La voce estesa in un urlo infinito si mischia agli strumenti, si nasconde e riappare tra di essi, mentre le chitarre sono lame affilate deliziose come un roseto. Oppure possiamo pensarle come agili pennelli, in febbrile affrescatura di colori sfavillanti; melodie limpide si affacciano nel caos controllato, concupiscono, irradiano di un arcobaleno di essenze un pezzo che, con l’entrata in gioco delle tastiere, diventa un’ode colma di grandeur. La relativa leggerezza delle chitarre è bilanciata da una batteria forsennata, fino al delizioso epilogo di pianoforte. Ai Ghost Bath non piace dare troppi punti di riferimento e allora “Happyhouse” diventa un titolo millantatore, poiché l’uggiosità dilaga e i tempi si smorzano in un danza dai movimenti più ragionati: si alzano lamenti che scuotono perfino il cielo, le sei corde si raggrumano in cascate di lacrime inconsolabili. Abbiamo intravisto l’estasi, e ora siamo sotterrati dai nostri limiti e dalle nostre imperfezioni, ecco cosa sembra dirci la band: la seconda metà però ricomprende nuove accelerazioni, voli di farfalla che riconducono alla vita, senza intaccare il senso di abbandono ormai opprimente. Questa voglia di lasciarsi andare e restare immobili a contemplare quanto abbiamo attorno diventa conclamata nella lunga parentesi strumentale di “Beneath The Shade Tree” e “The Silver Flower Pt.I”: si può discutere se dovesse essere tagliato qualche minuto di questo dormiveglia in chiave dream pop – si tratta di quasi nove minuti consecutivi a bassi regimi – ma non è in discussione la sua toccante grazia e la funzionalità nella proposta del gruppo cinese. Questi musicisti sviluppano la tracklist come un percorso esistenziale: momenti di frenetica attività, pause, periodi felici, cadute, risurrezioni…. L’irregolarità, l’irrazionalità della ‘tracciatura’ di “Moonlover” trova quindi esplicazione, e una volta compresone il senso si riesce ad assimilare senza storcere il naso il brusco stop a una narrazione concitata e selvaggia. Per poi ricominciare a introiettarla, sotto forma di altre due drammatiche escursioni fra pareti chitarristiche scoscese, ora levigate, ora spigolose e infide. “The Silver Flower Pt.II” e “Death And The Maiden” rielaborano con pari enfasi e brillantezza le melodie shoegaze e le sparate travolgenti dei primi due episodi cantati, digradando in arpeggi stellati, fini e soffici come una nevicata notturna in una città deserta. Ancora grandi melodie, che si impennano e ricadono su se stesse, muovendosi sottotraccia e poi ricomparendo lussureggianti e irresistibili. Con il trasferimento nella terra delle grandi opportunità e contraddizioni, i Ghost Bath potrebbero aspirare al salto di qualità in termini di popolarità ottenuto dai loro padrini Deafheaven. Se accadrà, non odiateli: fatevi piuttosto ammaliare dalla loro incantevole musica.