8.0
- Band: GHOST
- Durata: 00:49:17
- Disponibile dal: 11/03/2022
- Etichetta:
- Loma Vista Recordings
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I Ghost sono una delle realtà più chiacchierate dell’universo metal e rock, nonché uno dei fenomeni maggiormente divisivi degli ultimi anni. Partiti dall’underground con “Opus Eponymous”, folgorante debutto che ha fatto la fortuna della Rise Above Records, si sono progressivamente spostati verso lidi musicalmente più accessibili, vincendo nel 2016 un Grammy Award nella categoria “Best Metal Performance” con il brano “Cirice” da “Meliora”, l’album che li ha – paradossalmente, ma non troppo – proiettati fuori dai confini del metal, decretandone il successo commerciale mondiale e la condanna senza appello dei puristi e di alcuni fan della prima ora.
Va detto che i Ghost sono sin da principio come creatura ibrida tra hard’n’heavy luciferino e gusto melodico retrò, un incrocio ideale e apparentemente impossibile tra The Beatles e King Diamond, giusto per semplificare all’osso; il tutto corredato da un alone di totale mistero, dato che per diversi anni i nomi dei componenti sono stati assolutamente top secret, cosa che ha scatenato la fantasia dei fan, impegnati a scommettere su chi si celasse dietro ai costumi dell’Antipapa e dei suoi Ghoul Senza Nome. È stata una prosaica causa legale, intentata dagli ex membri della band svedese contro il cantante e leader assoluto Papa Emeritus, a svelarne l’identità e rompere per sempre l’incantesimo. Tristi e noiose questioni di royalties, che non ci interessano in questa sede ma che certamente non hanno giovato all’immagine del suo creatore, il polistrumentista e unico compositore Tobias Forge, contribuendo all’accusa di non essere interessato che al vil denaro. Quello che è certo è che i Ghost sono Tobias, i musicisti che lo accompagnano dal vivo e in studio sono comprimari, e come tali perfettamente sostituibili (non è un caso che indossino tutti la stessa maschera e siano appunto chiamati Nameless Ghouls). E sebbene questa sia una realtà ‘molto poco rock’n’roll’ è cosa comune a molte band che ruotano da decenni attorno ad un solo artista e compositore, solo che di solito il meccanismo è meno esplicito.
Ebbene, a dodici anni dalla primissima uscita – il sette pollici “Elisabeth” – Papa Emeritus IV torna sulle scene con l’attesissimo “Impera”, un disco che, a differenza del suo predecessore “Prequelle”, è ambientato in un’epoca molto vicina a noi, come reso esplicito dal brano “Twenties”, che potrebbe alludere tanto agli anni ‘20 del Novecento quanto al decennio che stiamo vivendo. L’intero disco ha un’aura art deco e insieme steampunk, come abbiamo potuto vedere soprattutto dal video di “Call Me Little Sunshine” e come si capisce dalla (bellissima) copertina. Sempre la copertina ci da un riferimento piuttosto evidente e significativo, trattandosi di una rivisitazione in chiave Ghost di una celebre foto di Aleister Crowley, l’iconico esoterista inglese e fondatore del culto di Thelema, teorizzatore della cosiddetta ‘magia sessuale’ nonché – tra le altre cose – grande esperto di tarocchi. Crowley ha avuto ed ha tuttora un’influenza vastissima sulla musica dagli anni ‘60 ad oggi, ispirando in varia misura artisti tra loro diversissimi (e a volte insospettabili); si va dalle sporadiche suggestioni ad album interamente dedicati ai suoi insegnamenti, dal rock psichedelico al post-industrial esoterico passando – ovviamente – per il metal, da quello classico al più estremo.
Questo per dire che il profilo esoterico e ‘satanico’ della band svedese resta intatto anche se Tobias ha dichiarato che “Impera” è un disco che tratta tematiche più concrete dei suoi predecessori: si tratta di un concept che racconta di come ogni impero abbia sempre un ciclo vitale che inevitabilmente si conclude con il declino e la dissoluzione dello stesso. Non solo, il leader svedese ha parlato anche di profezie (immediato pensare a Nostradamus) ed eventi legati alla volta celeste, naturali come le eclissi o i passaggi di meteoriti e creati dall’intervento umano, pensiamo ai viaggi spaziali lanciati – letteralmente – da Elon Musk.
Musicalmente “Impera” si muove su coordinate simili a “Prequelle” e “Meliora”, con alcune novità stilistiche forse non immediatamente individuabili e spingendo maggiormente su elementi già presenti nel sound dei Ghost. Chi pensava (e magari sperava) in uno sviluppo della direzione intrapresa con l’ottimo quarantacinque giri “Seven Inches Of Satanic Panic” rimarrà deluso: il piglio doom rock primi anni ‘70 – ironico ed immediato – che caratterizzava il singolo uscito nel 2019 è stato messo da parte, in favore di uno sguardo volto decisamente agli anni ‘80, pur conservando e in certa misura ampliando le reminiscenze dei Blue Öyster Cult che sono da sempre sullo sfondo.
L’intro “Imperium” è un piccolo gioiello strumentale che ci ha fatto quasi tornare alla mente il capolavoro “Spellbound” dei Ten: malinconica e struggente, riesce ad unire – in poco più di un minuto e mezzo – epicità, dolcezza e i primi sentori delle atmosfere sci-fi che sono la principale novità di questo lavoro, introducendo la melodia della successiva “Kaisarion”, un pezzo che gli svedesi avevano già reso noto nella sua versione live. Il primo impatto è un po’ spiazzante, si tratta di un brano molto ‘allegro’, che però cresce rapidamente con gli ascolti, rivelando i primi – inconfondibili – elementi progressive che caratterizzano l’intero disco e un bridge assolutamente irresistibile.
“Spillways” ci fa sprofondare negli anni ‘80 dell’hard’n’heavy a stelle e strisce, con un incipit voce e piano che riporta ai Bon Jovi di “Slippery When Wet”; questo – ottimo – brano fa il paio con “Griftwood”, altra incursione a gamba tesa in territorio di Van Halen, Boston e dei già citati Blue Öyster Cult più irresistibilmente melodici: onestamente sono due pezzi che ci hanno conquistato dopo un paio di ascolti, riletture inconfondibilmente Ghost di un periodo musicale insuperabile per alcuni e detestato da altri, ma oggettivamente fondamentale.
“Call Me Little Sunshine” non è una novità: anche in questo caso possiamo parlare di un pezzo in apparenza quasi dimenticabile, molto immediato, che in realtà si fa apprezzare parecchio con il passare degli ascolti, evidenziando tutti i dettagli di una scrittura solo in apparenza semplice, come le ottime linee di organo. Segue l’altro singolo tratto dal disco, quella “Hunter’s Moon” che è parte della colonna sonora del più recente capitolo della (infinita) saga di Michael Myers, “Halloween Kills”: si tratta probabilmente del brano più scuro e ‘spiritato’ del lotto, nonché uno dei più rocciosi e veloci. Un altro degli episodi più duri, oltre che meglio riusciti, segue immediatamente: “Watcher In The Sky” riprende le atmosfere da film di fantascienza già accennate e si rivela musicalmente complesso, nonostante il ritornello immediato. Prosegue sulla stessa galassia (lontana) la breve strumentale “Dominion”, bellissimo frammento sinfonico che ci introduce all’ultima parte del disco e al suo brano più controverso.“Twenties” ha una partenza promettente: i fiati creano un bel contrasto con una sezione ritmica dura e nervosa, con un incedere che si incrina leggermente quando il ritmo si fa vicino al reggaeton (!), come sottolineato da un Tobias parzialmente inedito anche nelle linee vocali (“listen up, you motherfuckers…“). L’effetto è un po’ straniante, e nonostante un apprezzabile lavoro della chitarra solista resta qualche perplessità verso un brano che non scorre come dovrebbe. Probabilmente in questo caso Forge si è spinto un po’ troppo fuori dal seminato, ma “Darkness At The Heart Of My Love” è una power ballad dalle influenze gospel che rientra immediatamente in carreggiata: anche qui vale un discorso già fatto in precedenza, e cioè che dietro a linee melodiche piuttosto immediate c’è in realtà un songwriting complesso e a più strati. Siamo alle battute finali, e se “Bite Of Passage” è il più anonimo (e breve) tra i passaggi strumentali che legano tra loro le canzoni, la conclusiva “Respite On The Spital Field” è la chiusura del cerchio: la linea di chitarra dell’opener “Imperium” viene ripresa sul finale di un pezzo complesso, capace di coniugare molto bene durezza e melodia.
“Impera” è un disco fatto di luci (molte) e ombre, meno evidenti che in passato ma non per questo meno inquietanti, anzi. Un lavoro complesso e non del tutto immediato, ricco di sfumature che si colgono ed apprezzano solo riascoltandolo, nonostante l’innegabile presa istantanea di alcuni ritornelli. Valido anche il contributo in studio di Fredrik Åkesson, chitarrista degli Opeth, che ha regalato il suo tocco a partiture che uniscono aggressività ritmica e gusto classico negli assoli. Forge dimostra – ancora una volta – di maneggiare con sapienza elementi tra loro diversissimi, che riesce – quasi sempre – ad unire in maniera perfetta: pomposità orchestrale, un tocco teatrale, da musical pop (vedi la cover di “I’m A Marionette” degli Abba, già in tempi non sospetti), heavy metal, hard rock, progressive metal e il gusto per un’oscurità malinconica che deriva dalla synthwave di Echo & The Bunnymen e compagnia dark, il tutto arrangiato in modo magistrale. “If you have Ghost, you have everything'”