7.5
- Band: GLORIOUS DEPRAVITY
- Durata: 00:34:02
- Disponibile dal: 07/11/2025
- Etichetta:
- Transcending Obscurity
Spotify:
Apple Music:
L’abito, in alcuni casi, fa il monaco. Del resto, un moniker come Glorious Depravity (omaggio all’omonimo demo dei Ripping Corpse), un artwork firmato da Dan Seagrave, colui che con i suoi dipinti ha segnato indelebilmente l’immaginario death metal degli anni Ottanta/Novanta, e il coinvolgimento in cabina di regia di Joe Cincotta (Obituary, Suffocation) e Ryan Williams (Slayer, The Black Dahlia Murder) creano delle aspettative che difficilmente il contenuto di “Death Never Sleeps” potrebbe deludere.
Così è, infatti, per un disco che vede la formazione newyorkese – sorta di ‘super gruppo’ composto da membri di Woe, Pyrrhon e Gravesend – riaffacciarsi sul mercato in una veste ancora più lucida e spietata di quella indossata all’epoca dell’esordio “Ageless Violence” (2020), accantonando nuovamente qualsiasi tipo di discorso legato alla ricerca di un suono personale per entrare in una dimensione derivativa e nostalgica, old-school senza tuttavia percorrere sentieri battuti fino allo sfinimento dal revival contemporaneo.
Una pozza di sonorità death metal propulsive, caustiche e affilate, in cui la tecnica non prende mai il sopravvento sulle fondamenta dei brani e dove la legge del riff – criterio imprescindibile per il modo in cui il quintetto interpreta il genere – regna sovrana su una serie di costrutti né troppo lineari e ignoranti, né così complessi da sfociare in formule avanguardistiche, evocando dall’inizio alla fine un senso di impatto prorompente e ingegno applicato al processo di macellazione di un corpo.
Ci troviamo quindi dalle parti degli autori di “Dreaming with the Dead”, dei Sinister di “Hate” e “Diabolical Summoning” e della scuola floridiana più densa e strutturata immortalata da lavori come “Millennium” e “The Bleeding”; un filone che da qualche anno ha saputo rivitalizzarsi grazie agli sforzi di Hyperdontia e Skeletal Remains, e che oggi i Nostri interpretano con un gusto e un’autorevolezza assolutamente degni del loro pedigree underground, lasciando intendere come questo non vada più visto come un progetto estemporaneo, bensì come una priorità alla pari delle suddette band madri.
Musica in cui la componente thrash ha ancora modo di risuonare – ferocissima – tra i picchi e gli avvallamenti disegnati dal guitar work (basti sentire l’incipit di “Carnage at the Margins”), e stimolante proprio per la sua imprevedibilità priva di sofisticazioni o di eccessi, figlia di un’epoca durante la quale non si poteva prescindere dalla sintesi e dalla concretezza per esprimersi.
Un flusso che vive di incastri meticolosi e input continui da parte di una sezione strumentale pulsante e dinamica, con anche il basso a ritagliarsi un suo spazio nel mix, che se è vero che non reiventa minimamente la ruota (facendo anzi di tutto per sottolineare la propria estetica tradizionale) non manca mai di suonare fresco e coinvolgente, partendo benissimo sulle note di “Slaughter the Gerontocrats” e proseguendo su una scia di canzoni brucianti e riff con la R maiuscola.
