7.5
- Band: GOD IS AN ASTRONAUT
- Durata: 00:37:14
- Disponibile dal: 12/02/2021
- Etichetta:
- Napalm Records
- Distributore: Audioglobe
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Decima tacca per i God Is An Astronaut, questo “Ghost Tapes #10”, un traguardo che si configura nuovo e assieme classico per la band, in termini di un eterno ritorno sull’onda di sonorità alle quali gli irlandesi sono associati e nel corso di quasi vent’anni hanno contribuito a forgiare; celebrazione dunque di una costruzione che, se in alcuni frangenti era sembrata mancare di qualche mattoncino base, vive di fatto sull’essenza stessa di essere un apparato mai davvero completato, mai davvero finito. Chi si attendeva un proseguimento delle arie cupe e meditative del precedente “Epitaph” potrebbe rimanere in parte deluso, visto che a parte qualche reminiscenza riflessiva, il suono dei God Is An Astronaut sembra essere tornato sui passi dei loro periodi migliori, come già l’ottima opener, “Adrift” ci sembra indicare, andando a lambire, con un brano intenso e che continua a cambiare umore, le vette di “All Is Violent All Is Bright”.
È proprio la dinamica, la capacità di rendere ogni singolo brano un piccolo viaggio mai iniziato né in grado di terminare, quello che ci stupisce in quest’ultima prova, perché se da sempre il gruppo ha saputo evitare facili prolissità – quanto meno nei momenti più ispirati – qui crea dei piccoli paesaggi ad ogni canzone, con aperture ariose sotto forma del classico post-rock fino anche a sporadiche asprezze metal che irrompono durante l’ascolto; cosa non da poco, si riesce a rendere leggera la pesantezza che si voleva esprimere: non manca l’intensità, la grave profondità, eppure la struttura dei pezzi riesce a mescolare le carte in modo che la sensazione base non si scolli di dosso, e allo stesso tempo ci si ritrovi a fine percorso senza rendersene quasi conto.
Aperto da una tripletta abbastanza corposa (quasi venti minuti quando parte il quarto episodio), “Ghost Tapes #10” è roccioso, agitato, figlio di una riflessione maturata in precedenza e che ora necessità libertà, vibrazione, movimento. Sicuramente l’apporto dell’ex Jamie Dean, tornato in forza a tastiere e chitarra, ha rimesso in circolazione la componente più marcatamente ritmica del suono dei Gods, che pure non manca, come detto, di incorporare elementi immaginifici e malinconicamente atmosferici (in particolare verso la fine, con gli ultimi due brani, dove trova spazio anche il violoncello in “Luminous Waves”, forse il momento più etereo del lotto), e che alla fine dei suoi meno di quaranta minuti si dichiara marcatamente e nuovamente rock.