7.0
- Band: GODFLESH
- Durata: 00:53:57
- Disponibile dal: 07/10/2014
- Etichetta:
- Avalanche Inc.
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Eccolo qua, il disco che migliaia di fan aspettavano da quindici anni, praticamente autoprodotto e licenziato in totale autonomia da Justin Broadrick stesso tramite la sua label e sin da subito dunque un inequivocabile segno di serietà e integrità. Il ritorno dei Godflesh, con questo nuovo attesissimo full-length si compie in pienezza dopo gli ultimi quattro-cinque anni che Green e Broadrick hanno passato a ricomporre i cocci di una delle band più innovative di tutti i tempi, scomparsa prematuramente a ridosso dell’inizio del nuovo millennio. Se da un lato il precedente EP – “Decline and Fall” – era arrivato con fare alquanto “conservatore” e un tantino auto-indulgente, semplicemente rimettendo in moto il cuore meccanico-centrico della band puntando tutto sulla pesantezza senza osare più di tanto e presentandosi con una manciata di canzoni dignitosissime ma lontane dai fasti di crudelissima innovazione di un tempo, questo nuovo full-length smorza l’entusiasmo attorno al ritorno della band ancora di più, presentandosi non come un nuovo inizio dalle vedute più ampie e dettato dal desiderio di un nuovo slancio (come fu ai tempi Jesu), ma semplicemente come una versione più estesa del suddetto comeback EP precedente, con più canzoni e più musica nella durata, ma sostanzialmente ricalcandone lo stesso identico stile e gli stessi umori, come anche il sound, e senza quindi destare grandi sorprese oltre a ciò che avevamo già assaggiato precedentemente nel suddetto EP. E’ necessario specificare che di comeback da parte di grandi band che appaiono da subito onesti, concreti e seri come lo è questo, se ne vedono davvero pochi, ma dall’altro lato bisogna anche ammettere che “A World Lit Only By Fire” è uno dei lavori più derivativi, monotoni, conservatori, “timorosi” e poco intraprendenti che Green e Broadrick abbiano mai pubblicato. E’ un disco solido e serio e dalla schiena diritta che però punta tutto sul sicuro, cercando l’effetto immediato, cercando di rianimare i Godlfesh nel modo più facile, diretto ed ovvio possibile, senza destare alcuna sorpresa, e dunque con un fascino molto ridimensionato rispetto ai lavori passati, puntando tutto sulla pesantezza fine a se stessa e i tratti più stereotipati della band, giusto per mettere il primo risultato utile in cassaforte il prima possibile e chiudere la partita reunion senza correre grossi rischi. Le canzoni di “A World Lit Only By Fire” infatti sono estremamente prevedibili, scarne ed essenziali, e puntano tutto sulla pesantezza e la violenza dei riff e le solite strutture ossessive e alienanti dettate dalle drum-machine squassanti e ripetitive, il basso pulsante e sincopato di Green e le voci cavernose e minacciose di Broadrick, ma senza mostrare forti intenzioni di ampliare il songwriting o rimettere in gioco la band. Ogni canzone ruota attorno a tre – quattro riff in questo caso anche sin troppo groovy che vengono letteralmente infilati in gola all’ascoltatore senza pietà, il quale invece di addentrarsi nel disco cercando lo spunto, l’angolo nascosto o l’elemento inaspettato subisce la dozzinale ostilità delle canzoni passivamente ed in maniera sterile e unidirezionale, tartassato dall’inizio alla fine da riff massacranti e drum-machine torrenziali che cercano di imporre il marchio di fabbrica della band a suon di citazioni. Il disco insomma sembra essere orientato unicamente ad ammazzare la nostalgia dei fan e a rassicurarli sul fatto che i Godflesh sono sempre heavy, quasi come se la band stia imitando se stessa o cercando di autocitasi per timidamente riconfermasi e rimettersi in moto. L’argomento fatto da Broadrick del ritorno assoluto alle origini della band per mezzo di questo disco, inoltre, è un discorso con il quale siamo d’accordo solo a metà, e caso mai è riscontrabile nell’appena menzionata “pesantezza” dei riff, ma per il resto del fascino degli esordi qua non vi è traccia. La violenza, ossessività, crudezza, ruvidità e belligeranza di lavori come il debutto omonimo, del capolavoro assoluto “Streetcleaner” appunto e di lavori iconici come “Slavestate, “Merciless” e “Selfless” sono di nuovo qui, ma senza quel suono crudo, ronzante e cataclismico di suddetti lavori e le loro atmosfere alienanti e soffocanti. Invece in questo caso troviamo un lavoro dominato da riff iper-compatti scaturiti da chitarre a otto corde assolutamente fuori luogo iper-cibernetiche, cementose, marmoree e prive di un’anima scalpitante e di quelle sanguinanti dissonanze e atmosfere di una volta che scorrevano copiose quando Broadrick torturava una semplice Fender Stratocaster attraverso i suoi famosissimi ampli Marshall. Il risultato che ne consegue è una produzione sterile, digitalizzata e fin troppo moderna e “mainstream” nelle tonalità e nelle sfumature sonore che ha praticamente ammazzato tutto il fascino sonico passato della band e compromesso nel sound anche i riff più validi del lavoro. Viene in mente la tristissima (per il contesto e soggetto) parola “djent” nel sentire questi riff baritoni e super-downtuned suonare così plastificati e pieni di modernità; “modernità” che in questo caso è un termine che usiamo in modo tutto tranne che lusinghiero, visto che in questo contesto il termine è una cosa ben diversa dalla onestà e viscerale crudezza e incompromissoria rumorosità vista nel suono dei vecchi lavori. In questo la band sembra aver invece realizzato dei pezzi provenienti da “Pure” per l’attitudine ma dominati dalle fattezze “simil-alternative metal” di lavori come “Hymns” quando la band era più in sintonia stilistica con band quali Prong e Fear Factory e in pieno sommovimento stilistico “Nineties” con tutto ciò che ne conseguiva. Insomma il sound di questo nuovo disco sembra aver letteralmente ammazzato tutta la dissonanza e l’atmosfera del passato sonoro dei Godfelsh di cui tutti noi ci siamo innamorati a fine anni Ottanta – inizio dei Novanta, e sembra anche aver forzato la band in un imbuto di auto-citazionismo evidentissimo. I Godflesh una volta innovavano in lungo e in largo ed erano il simbolo supremo dell’allora sconosciuto “post-metal”, del metal che guardava oltre e osava in territori inesplorati. Ora invece Green e Broadrick sembrano più interessati a voler rassicurare i fan che questo ritorno è credibile e in linea con le loro aspettative e che non vi sono brutte sorprese, invece che voler osare e mostrare quei grandiosi tratti di intraprendenza sempre mostrati dal duo in passato quando la band era attiva pre-scioglimento. “A World Lit Only By Fire” è insomma è un disco fatto di luci e ombre ed estremamante ambivalente, che da un lato placa la nostalgia riconsegnandoci la band come “di nuovo se stessa” – heavy, minimale, e più ossessiva che mai, ma che dall’altro lato per via del sound assolutamente fuori luogo si mostra come uno dei capitoli meno ispirati, meno coraggiosi e coinvolgenti della loro carriera. Per portare un esempio concreto, basti pensare al fatto che il disco omonimo dei Jesu sta anni luce avanti a questo lavoro sotto tutti gli aspetti, ed i due lavori si assomigliano non poco. Quel disco rappresentava il vero salto nel buio di Broadrick, il vero slancio in avanti fatto sfruttando la scia di innovazione insostituibile dei Godflesh. I Godflesh sarebbero dovuti diventare quel disco e continuare quel discorso di innovazione e coraggio stilistico che da sempre li aveva contraddistinti, e infatti sono le tracce che maggiormente ci ricordano quel disco quali la conclusiva deriva doom-cibernetica di “Forgeve Our Fathers”, l’insulso incubo sludge-shoegaze delle terremotanti “Carrion” e “Curse Us All”, e l’oceano tempestoso di crudelissime dissonanze che è “Obeyed” (traccia che infatti riprende il discorso stilistico della immensa “Man/Woman” dall’omonimo degli Jesu!) ad esaltare maggiormente in questa sede. Mentre invece della esagerazione downtuned-groovy di “Shut Me Down” (traccia sconcertante che mostra tutti i limiti della scelta in sede di produzione e il cui riff portante addirittura può ricordare i Korn), della banalissima “Deadend”, e dei blandissimi due riff della incolore “Life Giver Life Taker” non se ne sentiva veramente alcun bisogno. In fin dei conti però è altresì un discorso accettabilissimo voler essere prudenti e concreti nell’approcciare un comeback così importante e pieno di aspettative, per cui non possiamo certo biasimare Broadrick e Green nelle loro scelte stilistiche e compositive che hanno dettato questo ritorno. Ciò significa però che a questo punto siamo anche tutti ansiosi di rivedere presto questa band sconvolgerci ancora con qualcosa di drammaticamente diverso in futuro, visto che questi riff che formano “A World Lit Only By Fire” potevano essere una cosa nuova nel 1992, ma oggi, specialmente con il sound delle chitarre proposto davvero fuori dalla grazia di Dio per i fan della band, le cose sono ben diverse e con una produzione simile e un suono come questo l’esaltazione è decisamente venuta meno. Bravi, ma è ora di tornare ad osare e soprattutto di abbandonare l’insensatezza totale delle chitarre a otto corde, una scelta davvero inutile e controproducente.