7.0
- Band: GODFLESH
- Durata: 00:20:33
- Disponibile dal: 02/06/2014
- Etichetta:
- Avalanche Inc.
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Apocalittici, ossessivi, scarnificati, crudeli, luridi, martellanti, gelidi, sterili…. brutali. Non sono cambiati in nulla i Godlesh in quattordici anni di silenzio. Sono rimasti lì in freezer dove erano finiti nel 2001, congelati e preservati in tutto, in tutta la loro inumanità. Forse è per questo che questo ritorno glorioso appare un po’ meno glorioso di quello che ci saremmo aspettati. E’ il lavoro di una band che ha cambiato il metal, ma che sarebbe potuto benissimo essere datato 2001. Non proprio un complimento insomma affermare che una band nota per essere solitamente dieci anni avanti a tutti ora è invece dieci anni indietro… Ma cosa ci aspettavamo dai Godflesh, se non un disco dei Godflesh? Non era questo il piano? Appunto. Di miracoli questa band già ne ha fatti tanti, per cui, anima in pace e mano sulla coscienza, li volevano di nuovo tra noi, e ora sono qua, senza aver tradito nulla e nessuno, in niente. Il lavoro addirituttura ci ripropone quell’artwork post industriale “lobotomizzato”, scarno, inespressivo, gelido e regresso che ha dominato le pagine della stampa specializzata per tutti gli anni Novanta, facendo la storia del metal e riempendoci la testa di ricordi incredibili. Allo stesso modo, il titolo è godlfleshiano in tutto, poiché non è “Rise & Fall” come verrebbe spontaneo pensare, ma addirittura “Decline & Fall”. Come dire, speranza non c’era mai stata. Parole usate da Broadrick come mattoni sul cranio. Come tombini di ghisa lanciati sui denti. Come colate di calcestruzzo versate a metricubi su ogni speranza umana. Su ogni concetto positivo o speranzoso esistente nella nostra coscienza. E la musica? Ve lo abbiamo appena detto: indutrial sludge dissonante e ossessivo, brutto e rabbioso fatto di budella e ruggine che sembra essere sbucato dritto dalle sessioni di registrazione di “Hymns” (ecco qua l’unica vera delusione, poteva essere un lavoro più prossimo al capolavoro “Streetcleaner”, e non lo è, ma va bene così). Chitarroni enormi e plumbei, infestati da un ronzare di dissonanze incessante e da linee di basso pulsanti e martellanti capaci di scavare una cavità di pazzia anche nei crani più spessi. E su tutto questo insulso e paranoico mare di melma post industriale regnano delle drum machine che sono come chiodi piantati ad uno ad uno nella calotta cranica, una martellata dopo l’altra. Non c’è nulla da capire, non c’è nulla da interpretare, non c’è nulla da analizzare. Li volevamo indietro? Eccoli, più in forma e “se stessi” che mai. Più accontentati di così si muore.