8.0
- Band: GODFLESH
- Durata: 00:46:38
- Disponibile dal: 17/11/2017
- Etichetta:
- Avalanche Inc.
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I Godflesh sono tornati. Ci sono voluti tre anni, durante i quali Justin Broadrick si è spesso dedicato ai suoi Jesu e ad una lunga serie di collaborazioni, ma per il nuovo disco del suo progetto più longevo e celebrato era solo una questione di tempo. Quello che non è mai mancato al musicista britannico e al suo socio G.C. Green, l’elemento che li ha portati ad essere uno dei massimi punti di riferimento del panorama industrial e sperimentale degli ultimi trent’anni, è l’incessante slancio alla ricerca verso nuovi suoni, ma sempre recintandoli in un’idea ben precisa. Uno stile che nel corso della carriera è spesso venuto a mutare, avviando traiettorie che l’hanno avvicinato a varie sfaccettature dei mondi industrial e metal, per risultati ora più pesanti, ora più stranianti e ripetitivi, ora più melodici. Con “Post Self” i Godflesh centrano subito il bersaglio dimostrandosi sia più spontanei, sia più cangianti rispetto a quanto offerto con il comeback album “A World Lit Only by Fire”. Pur non potendo certo essere definita una brutta prova, “A World…” aveva qua e là dato l’idea di essere il parto di una formazione ancora un po’ arrugginita, arrivata al primo album dalla reunion del 2009 con ancora qualche idea da schiarire. “Post Self” invece procede con tutt’altra marcia, aprendosi con una manciata di pezzi rabbiosi, che, anche se lungi dal rappresentare una mera scopiazzatura nostalgica, segnano un ritorno al metal industriale più incisivo e ispirato, per una fresca rivisitazione delle sonorità degli esordi. Tuttavia, non passa troppo tempo prima che il disco prenda una piega meno diretta: con “Be God” e “The Cyclic End”, la tracklist si apre ad atmosfere intime, svelando quell’approccio inquieto e quel DNA shoegaze e dream pop che ha accompagnato le produzioni di Broadrick con i succitati Jesu. Ci sono brani dove lo stile di quest’ultima realtà pare prendere il sopravvento, grazie ad improvvise pennellate di melodia, ma le cadenze marziali e i loop vocali che portano a strofe severe a conti fatti restano sempre punti cardine della proposta, mantenendo il materiale su quei toni gravi tipicamente Godflesh. Si rintraccia una spiccata varietà all’interno di “Post Self”, ma l’aspetto davvero positivo è che il songwriting riesce ad agganciare l’ascoltatore quasi subito, grazie a riff azzeccati, melodie ben dosate e una capacità di sintesi perfetta. Insomma, questa volta non si ha l’impressione che il duo a tratti porti avanti la sua ricerca sonora con il pilota automatico. Probabilmente Broadrick ha fatto bene a dedicarsi ad altro negli ultimi anni: da un lato ha avuto modo di ricaricare le batterie e di ritrovare la fame per sonorità aggressive, dall’altro ha maturato ulteriore esperienza su fronti musicali diversi, cosa che gli ha dato poi modo di riversare certi insegnamenti nei classici pattern Godflesh. Il risultato è un album davvero completo e che sembra tracciare una nuova via per il gruppo. Gli eccessi e le spigolosità di “A World…” sono stati brillantemente superati.