8.0
- Band: GOODBYE KINGS
- Durata: 01:15:31
- Disponibile dal: 07/11/2016
- Etichetta:
- Argonauta Records
- Distributore: Goodfellas
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È un percorso esplorativo ad ampio spettro, fra post-rock e post-metal, composizione classica moderna, jazz, percussionismo, sperimentazione e introspezione, quello compiuto dai Goodbye, Kings nel loro secondo album. I germi di un’avventura fuori dai canoni erano rintracciabili anche in “Au Cabaret Vert” del 2014, ma questa volta la piega presa dalle creazioni del sestetto è andata ben oltre. Nella ricerca dell’atmosfera toccante, fin tenera quando il pianoforte di Luca Sguera prende il sopravvento e si erge nudo in assenza o in parziale tacitazione degli altri strumenti, il sestetto milanese ha espanso febbrilmente la sua creatività, libero, completamente sciolto dalle regole imposte dai generi. Ed è proprio dalla centralità del pianoforte e degli effetti tastieristici che è bene partire, per inquadrare un album difficile da descrivere in poche righe, data la mole di idee presenti e il loro sviluppo. Un’abbondanza di pulsioni e azioni che si fatica ad accostare a questo o quell’altro grande nome, comprensiva piuttosto di una sensibilità molto personale, che non ha paura di osare andamenti molto dilatati; a volte spogli formalmente ma ricchissimi di emozionalità, in altre situazioni pieni di piccole punteggiature, balletti fra strumenti che educatamente si intrecciano e crescono di volume, fino a sciogliersi in qualcos’altro di egualmente suggestionante. I primi dettagli a rimanere in testa sono le piccole acrobazie sui tasti d’avorio, un impalpabile e profumato sentiero stimolante alla catarsi, alla liberazione dalle inquietudini. Spingendo all’incorporeità, il piano regala davvero quei refoli di aria pura e fragrante che, racchiusi nel concetto di “Vento”, vanno a costituire il tema portante del disco. Possiamo allora accostare l’apparente assenza di forma e materialità di questo fenomeno, contrapposto alla ricchezza dei modi in cui può esprimersi, alle tracce-fiume qui proposte. Che possono disorientare e sembrare dispersive, se ascoltate in un’ottica di canzoni e non quali capitoli di una lunga, distensiva, storia avente connotazioni sfuggenti e mutevoli, come è del resto quel flusso d’aria che può carezzarci la pelle, come tagliarla e schiaffeggiarla con violenza. I Goodbye, Kings sanno assumere un’aria spavalda, decisa, quando ergono un ruvido muro chitarristico nella pirotecnica prima parte di “Fujin vs. Raijin”, preambolo a un processo di lenta discesa e rilassamento, sorretto dalla celestialità di chitarre aperte a molteplici influenze, portatrici di un luccicante candore e sottigliezze melodiche di grande forza, pur nella loro confortante pacatezza. Ci sono momenti che restano impressi e servono da punti di riferimento nel lungo cammino, come ad esempio le pizzicate di corda che aprono il sipario di “How Do Dandelions Die”. Oppure le intrusioni di chitarra classica, fra il clamore di quelle elettriche, nella progressione di “12 Horses”, lo sciabordare fanciullo dello xilofono in “The Bird Whose Wings Made The Wind”, il dedalo di tamburi inondanti “If Winter Comes…”. La profondità del reparto ritmico è un altro punto focale dell’identità del gruppo, che ha nel tambureggiare flebile ma costante sulle pelli un serbatoio inesauribile di palpitazioni, singulti variopinti di un’anima sempre reattiva alle raffiche ventose, in modi e tempi spesso imprevedibili. Digradando in un lungo addio che sembra non volersi mai concludere del tutto, “Vento” ci trascina in un turbine emozionale raro, un concentrato di ebbrezze ovattate, malinconie tremule, assorte meditazioni. Non proprio il disco per tutti i giorni e per tutte le ore, ma quando è il caso di staccare la spina e trovare un po’ di conforto nella musica, il nuovo album dei Goodbye, Kings fa veramente al caso vostro.