7.5
- Band: GOROD
- Durata: 00:42:06
- Disponibile dal: 07/03/2023
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I francesi Gorod sono ormai al loro ventiseiesimo anno di attività (se si contano anche gli esordi a nome Gorgasm) e non si può dire siano mai stati eccessivamente prolifici, essendo appena all’ottavo album della loro carriera, ma sono sempre riusciti a mantenere uno standard qualitativo alto, che gli è valso una certa popolarità tra gli appassionati di un genere competitivo come il technical death metal, pur non avendo mai avuto l’occasione di fare il cosiddetto ‘botto’.
Forti di una formazione finalmente stabile, i transalpini fanno la loro ricomparsa dopo ben cinque anni dal precedente “Æthra”, un disco che sembrava proseguire il percorso di relativo ammorbidimento dei suoni intrapreso da qualche anno indietro, e questa volta cercano di tornare, almeno in parte, sui loro passi: “The Orb”, infatti, suona come una specie di compendio di tutto ciò che i Gorod hanno fatto finora, con un’esasperazione delle parti più tecniche e progressive in alcuni brani, ed una sorta di ritorno all’intransigenza dei ruggenti esordi in altri.
Così “Chremateism” risulta un assalto che riporta all’epoca precedente a “Process Of A New Decline”, un death metal sparato ad alte velocità, con riff arcigni e complessi eppure senza troppi fronzoli. Ma l’autoindulgenza in questo genere è sempre dietro l’angolo e, se non è eccessiva, può anche portare agli ottimi risultati di “We Are The Sun Gods”, una vera e propria cascata di note con accenni di funky e di fusion, ed una maestosa esibizione di tapping e, qui più che altrove, una produzione chiara e ben delineata è il valore aggiunto che permette di evidenziarne tutti i dettagli. “Waltz Of Shades” tiene fede al proprio nome e sembra sperimentare i tempi del tango in versione estrema, mentre più sobria è “Savitri”, pezzo che non sfigurerebbe su una delle ultime uscite dei Gojira e, come “Victory” e “Scale Of Sorrows”, rappresenta al meglio il nuovo corso. In chiusura, la cover di “Strange Days” dei Doors che, completamente trasfigurata, con la voce pulita ma coperta da effetti e l’utilizzo massivo, ancora una volta, del tapping, più che una scelta coraggiosa suona come un corpo estraneo e, probabilmente, sarebbe stata più efficace come bonus track.
Ancora una volta la band di Bordeaux non delude, riuscendo a mantenere un equilibrio stabile tra evoluzione e fedeltà alle proprie origini, senza peraltro che questa scelta appaia ruffiana o frutto di una decisione presa a tavolino.