7.5
- Band: GOYA
- Durata: 00:40:25
- Disponibile dal: 13/06/2025
- Etichetta:
- Blues Funeral Recordings
Spotify:
Apple Music:
Adepti del fuzz, discepoli del proto-metal, ecco a voi, in questo primo scampolo di bella stagione, la nuova fatica dei Goya, esperto e rodato trio doom da Phoenix, Arizona.
Trascinati, fin dal 2011, dal cantante e chitarrista Jeffrey Owens, unico membro costante della formazione, si sono fatti conoscere grazie a lavori di un certo ‘peso’, quali il debutto “777” del 2013 e i concept album “Obelisk” e “Harvester Of Bongloads”, rispettivamente del 2015 e del 2017.
Stavolta ad accompagnare Jeffrey Owens troviamo C.J. Sholtis, che doppia le parti di chitarra col suo basso bello rotondo e corposo, e Marcus Bryant, già negli Spirit Adrift, che completa la formazione con la sua batteria asciutta e precisa. Ma il vero acquisto in questo caso è Jack Endino, produttore di culto già al lavoro con Soundgarden, Nirvana, High On Fire e Year Of The Cobra, che assicura un notevole salto in avanti nella compattezza e fruibilità della proposta dei Goya.
Il patrocinio della Blues Funeral Recordings da Albuquerque, New Mexico, etichetta anche degli Acid King, completa l’ambientazione desertica, aspra e lisergica dell’opera: questa non brilla di certo per originalità e innovazione, ma i Goya hanno diverse frecce al proprio arco che tenteremo di analizzare.
Innanzitutto c’è da sottolineare che di gruppi che giocano sulle medesime coordinate stilistiche se ne trovano di certo a bizzeffe: volendo citare un nome di una certa fama si potrebbero tirare in ballo i Gates Of Slumber dell’ultimo, omonimo album dell’anno scorso, ma non siamo comunque distanti dai maestri Sleep e Electric Wizard, cosa che risultava forse più evidente nei dischi precedenti, ma rimane ancora valida. Siamo insomma in quel particolare ambito stilistico dove il doom viene irrobustito dallo sludge e drogato dallo stoner rock, ma, se precedentemente a venire subito a galla era l’aspetto più viscerale e psichedelico della proposta, su questa nuova fatica, come già anticipato poco sopra, si rileva una maggiore attenzione al suono, alla scorrevolezza dei pezzi, all’omogeneità e coerenza del songwriting.
Forse a discapito di una certa vena oscura ed ermetica che va un po’ a perdersi, dacché ora i pezzi emergono immediatamente e in modo nitido all’orecchio, ma ciò non compromette la durabilità dell’opera, che risulta subito piacevole e al contempo non stanca sui ripetuti ascolti.
La voce del cantante, chitarrista, leader e unico membro fisso della formazione, in passato molto vicina a Jus Oborn degli Electric Wizard, oggi si avvicina a quella di Karl Simon dei Gates Of Slumber, meno effettata, meno ‘lontana’ e quindi più efficace; anche le linee vocali danno una sensazione di maggior compiutezza, sono insomma più orecchiabili e definite. Ottima anche la sua prova alla chitarra ritmica e solista, caratterizzata da riff incisivi e assoli blues puntuali e calzanti.
Come è facile riscontrare in altri dischi di genere, l’aspetto migliore del disco è la resa sonora, veramente impeccabile: chitarra e basso viaggiano all’unisono creando un muro di suono intimidatorio, pesante, avvolgente, ma il songwriting è comunque curato e permette di non annoiarsi nell’ascolto, anche grazie a una scaletta ben studiata.
I pezzi migliori, la title-track e “I Wanna Be Dead”, i due più lunghi, epici ed elaborati, caratterizzati da sostanziose digressioni strumentali, sono posti a inizio e fine disco; in mezzo, altre tre canzoni più brevi, dirette e leggermente più vivaci, tra le quali spicca la turbolenta “Depressive Episode”; in chiusura c’è spazio anche per un breve strumentale dalle vaghe tinte ambient e drone, ma molto semplice e che non aggiunge granché al lavoro, che nell’insieme risulta comunque godibilissimo, senza considerevoli cali di gusto e di tensione.
I testi pessimisti, più prettamente doom che stoner-sludge, non costituiscono un vero e proprio valore aggiunto, ma da questo punto di vista nemmeno la concorrenza brilla particolarmente, quindi non si può buttare la croce addosso al gruppo dell’Arizona, che “In The Dawn Of November” non solo conferma quanto di buono già prodotto in passato, ma consolida lo status di gruppo di grande valore all’interno dello stoner-doom; un album di genere che però ha le sue peculiarità e gode di un’ottimo suono, di un songwriting efficace e di una dote che non sempre si riscontra: la capacità di andare dritti al sodo e arrivare all’ascoltatore.
La formula vincente di “In The Dawn Of November” è ciò su cui si fondò il metal primigenio e che ha reso il suo successo globale e duraturo: la capacità di adagiare linee vocali semplici e ficcanti su grandi riff di chitarra, pesanti e ipnotici.
A volte anche nella mente del più inossidabile tradizionalista può sorgere il dubbio che la misura sia colma, ma album come questo ci spingono a pensare che in verità di questo suono non ne avremo mai abbastanza.