
6.5
- Band: GRAVE DIGGER
- Durata: 00:46:47
- Disponibile dal: 17/01/2025
- Etichetta:
- ROAR! Rock Of Angels Records
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Tutti noi sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato, un po’ ci speravamo e un po’ forse volevamo dimenticarcene, ma ecco che, puntuali come un quattro quarti teutonico, a distanza di due anni dal dimenticabile “Symbol Of Eternity” e dal terrificante disco solista di Chris Boltendahl, sono tornati i Grave Digger con il nuovo disco “Bone Collector”.
Dopo essersi separati repentinamente dalla chitarra di Axel Ritt e aver accolto in line-up Tobias Kersting (ex Orden Ogan), eravamo sinceramente curiosi di capire cosa avrebbe partorito la creatura principale del teutonico e carismatico frontman del Becchino: ma, fin dalle prime notizie sul nuovo lavoro, cominciano a suonare un po’ di campanelli d’allarme a cominciare dall’imbarazzante copertina AI-generated e poi modificata (?!) dallo stesso Chris Boltendahl e dall’artista brasiliano Wanderley Perna.
Ora, noi tutti sappiamo che gli Scavafosse hanno ormai preso la via del pilota automatico da anni, partorendo un disco più noioso dell’altro seppur nei limiti dell’umana decenza, quindi – e ci perdonerete il gioco di parole – ci aspettavamo che “Bone Collector” sarebbe stato il chiodo definitivo sulla bara di questa formazione.
Eppure, stavolta, sembrerebbe che Boltendahl e soci abbiano capito che si può anche galleggiare senza andare a fondo del precipizio della noia mortale: un po’ è il suono di chitarra che alla lontana ricorda i fasti e gli episodi riusciti della discografia dei Nostri, quando contribuivano a tracciare la rotta di certo heavy power ‘alla tedesca’, un po’ sono alcune canzoni che – bene o male – alla fine risultano azzeccate.
Certo, purtroppo il canuto frontman non riesce più ad esibirsi nei suoi urletti che caratterizzavano la vecchia produzione della band, ma sembra evidente come l’accoppiata Becker-Kersting sia stata in grado di portare finalmente idee che qua e là danno qualche guizzo di encefalogramma non piatto, fin dalla traccia di apertura che dà il titolo al lavoro, almeno a livello di riff e assoli. Già a partire da “The Rich The Poor The Dying” risprofondiamo nel solito quattro quarti sgonfio a cui siamo stati abituati ormai da anni, nonostante il sorriso che strappa il ritornello che cita palesemente i Dire Straits, mentre i brani più riusciti ci sembrano quelli di acceptiana memoria, come l’ottima “The Devil’s Serenade”, dove la chitarra finalmente ha lo spazio che dovrebbe avere su un disco di questo tipo.
Questa nuova incarnazione dei Grave Digger si impantana, invece, proprio sulle cavalcate che dovrebbero essere il loro asso nella manica: sono pezzi come “Graveyard Kings” che riescono a tenere su la nostra attenzione, volta altrimenti ad altro ogni volta che si prova a spingere sull’acceleratore. Ne sono un esempio “Made Of Madness” e “Forever Evil & Buried Alive”, prove dove ci sembra che Boltendahl faccia veramente fatica a stare al passo con i suoi sodali – non riuscendo più a esibirsi nei sopracitati urletti – mentre a spiccare è la conclusiva “Whispers Of The Damned”, la quale riprende le atmosfere horrorifiche di “The Grave Digger” e ci consegna finalmente un pezzo che non odora di già riascoltato milioni di altre volte.
Dunque, lo chiamiamo miracolo? I Grave Digger stanno tornando a riprendersi quel podio dell’heavy power teutonico che avevano ben saldo anni fa? Diremmo di no: non basta infatti azzeccare qualche canzone per tirarsi fuori dal pantano in cui Boltendahl e soci si sono cacciati. Siamo sicuramente davanti a un piccolo miglioramento rispetto al disco precedente, ma scordiamoci di urlare al nuovo “Ballads Of A Hangman”: annaspando, i Becchini sono riusciti a non farsi seppellire dalla prova del tempo, ma per la resurrezione definitiva ci vorrà ancora tempo… E possibilmente meno intelligenza artificiale.