6.5
- Band: GRAVE DIGGER
- Durata: 00:53:41
- Disponibile dal: 29/05/2020
- Etichetta:
- Napalm Records
- Distributore: Audioglobe
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È talmente stretto ormai il legame tra i Grave Digger e i concept album sulla storia scozzese da poter considerare questi ultimi delle vere e proprie pietre miliari (intese nel senso etimologico originario) all’interno della carriera dei Beccamorti. Il primo capitolo, “Tunes Of War”, è stato un vero spartiacque per i Grave Digger, che ha fruttato loro successo e visibilità mai raggiunti in più di quindici anni di attività. Il secondo, “The Clans Will Rise Again”, ha segnato un altro momento importante, ovvero l’ingresso in formazione di Axel Ritt, chitarrista tecnicamente capace ma che, nel cuore dei fan dei Grave Digger, non è riuscito mai a fare davvero breccia. Arriviamo quindi oggi a “Fields Of Blood”, con un altro traguardo da marcare: nel 2020, infatti, la formazione tedesca festeggia il proprio quarantennale e ha deciso di avventurarsi ancora una volta nelle Highlands scozzesi per chiudere la trilogia iniziata proprio con “Tunes Of War” e provare a dare una sterzata ad una carriera avviata ormai sul viale del tramonto, tra nostalgici ritorni al passato (“Return Of The Reaper”), mezzi passi falsi (“The Living Dead”) e qualche lavoro senza grandi pretese ma dignitoso (“Healed By Metal”).
“Fields Of Blood”, da questo punto di vista, riesce solo in parte a centrare l’obbiettivo, mostrando pregi, così come diversi difetti. Iniziamo con le note positive: è indubbio come i Grave Digger si sentano perfettamente a loro agio nelle ambientazioni epiche che hanno reso grandi album come “Tunes Of War”, “Knights Of The Cross” o “Excalibur”. Il nuovo capitolo enfatizza questa componente del sound della band, dando spazio ai grandi cori, alle cornamuse e a quegli anthem battaglieri tanto cari a Chris Boltendhal e soci. Abbiamo così una manciata di canzoni in pieno stile Grave Digger, come la classicissima “All For The Kingdom”, la piratesca “Lions Of The Sea”, “Freedom” o “Union Of The Crown”, a cui si aggiunge quello che è probabilmente il brano più interessante di tutti, “Fields Of Blood”, una lunga composizione di dieci minuti di durata che rappresenta davvero una delle cose migliori prodotte dai Grave Digger negli ultimi dieci anni. Il resto dell’album, invece, si adagia stancamente su quella sufficienza risicata che ha purtroppo caratterizzato la recente produzione della formazione teutonica: esempio lampante la ballad “Thousand Tears”, che vorrebbe essere la nuova “The Ballad Of Mary”, ma che non riesce nemmeno lontanamente ad avvicinarvisi, nonostante la partecipazione come ospite di Noora Louhimo dei Battle Beast. E qui arriva il grosso inghippo dell’intero “Fields Of Blood”: nel suo tentativo continuo di ricreare le atmosfere di “Tunes Of War”, l’album finisce per ridursi ad una copia meno riuscita di un grandissimo lavoro del passato, tanto che, in più di un’occasione, l’ascoltatore si ritroverà a fare parallelismi con le varie “Scotland United”, “The Dark Of The Sun” e via dicendo. L’affetto e il rispetto nei confronti di una delle band più vere e coerenti dell’intera storia dell’heavy metal rimane ancora immutato, ma, in tutta franchezza, siamo convinti che per i Grave Digger di oggi sia arrivato il momento di abbandonare ogni tentativo di emulazione del passato, limitandosi a portare avanti il proprio percorso con fierezza e orgoglio.