8.0
- Band: GRAVE PLEASURES
- Durata: 00:36:48
- Disponibile dal: 29/09/2017
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Sony
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Superato l’abbandono del chitarrista Johan ‘Goatspeed’ Snell e la conseguente ridenominazione, da Beastmilk a Grave Pleasures, Kvohst e i suoi amici finlandesi sono ripartiti con immutato entusiasmo. Se dal vivo le cose sono parse funzionare piuttosto bene fin dal principio – li abbiamo ammirati sotto entrambe le incarnazioni nel giro di pochi mesi e non abbiamo notato alcuna differenza – il rilascio di “Dreamcrash” nel 2015 aveva acceso qualche campanello d’allarme. In sé nient’affatto scarso, il disco segnalava un percettibile affievolimento dell’istintività punk, che assieme alla seduzione del gothic rock, il decadentismo della darkwave e l’orecchiabilità pop aveva portato a un capolavoro come “Climax”. Risultato probabilmente irripetibile, frutto di equilibrismi che non si ascoltavano da anni in un certo tipo di rock. Ora arriva “Motherblood” e si può tornare a sorridere a trentadue denti. Sisters Of Mercy, Depeche Mode, David Bowie, The Cure sono i nomi accostati più di frequente alla band, leggende che i cinque citano con classe, prendendo da costoro alcuni inconfondibili tratti distintivi, travasandoli opportunamente filtrati in un singolare pantheon di romanticismo apocalittico, marchio di fabbrica della formazione. Rintracciare e celebrare la gioia che alberga nella nostra oscurità interiore, nei brutti pensieri e nelle paure che si annidano dentro di noi, è il tema preferito di Kvohst, inglese trapiantato in Finlandia che si diverte come un bimbo in vena di marachelle a inscenare storie d’amore sconvolte da un imminente fallout nucleare. Una drammaticità danzante in un gothic club in piena notte, con i neon che illuminano di luce azzurra una pista da ballo semivuota, è ciò che ci ritroviamo a respirare, ancora prima che ascoltare, in tracce tambureggianti e inquiete, agitate da una verve che trae la sua linfa vitale dal catastrofismo. Cosa c’è di più apocalittico di un Cristo in avvento dopo il deflagrare di un fungo atomico, evento annunciato con vibranti noti basse in “Atomic Christ”? E quale desiderio più inconfessabile vi può essere di chiedere a qualcuno di essere la propria Hiroshima (“Be My Hiroshima”)? Il tono è fosco ma leggero e il piede si muove a tempo, sotto la spinta del basso post-punk che apre in un attacco memorabile “Infatuation Overkill”. La batteria solletica più che picchiare, manda su di giri che è un piacere mentre Kvohst si scatena in linee surreali, alternando urla a baritonali d’altri tempi. Un’iridescenza di colori scuri e crepuscolari prende il sopravvento, le chitarre di Juho Vanhanen (sì, proprio il genietto a chitarra e voce negli Oranssi Pazuzu) e Aleksi Kiiskilä si limitano a tocchi minimali, malinconici, fagocitate dall’opulenza della sezione ritmica. In “Doomsday Rainbows” guardiamo anche noi serenamente l’orizzonte, le bombe che fioccano una dopo l’altra, al ritmo del tamburello, intanto che il cielo si segna di arcobaleni. Pochi attimi e si è avviluppati da giri incalzanti magnificamente appiccicosi, come quello di “Joy Through Death”; si sorride e si sta male, la morte avanza e rapisce, ma non si smette di ballare, in un delirium tremens distensivo impossibile da fermare. La produzione curata dal sempre più lanciato Jaime Gomez Arellano nei suoi miracolosi Orgone Studios plasma suoni ovattati, caldi, potenti senza esagerare, che sanno di anni ’80 ma non potrebbero giungere che dai 2000. Un maestro di cerimonie ossessivo, il vulcanico Kvohst, che dal metal estremo frequentato con Dodheimsgard e Code ha forse imparato quanto l’istrionismo sregolato possa rendere bene anche in contesti più morbidi; “Mind Intruder” è esemplare da questo punto di vista, ci scuote dalla punta dei capelli alle dita dei piedi, butta a terra e rivolta la mente, inesorabile. Fuori gioco dai piaceri dell’esistenza in un aldilà non proprio divertente (“Haunted Afterlife”), i Grave Pleasures ci narrano i loro dispiaceri in serenità, accettando i disastri con un sorriso sornione sulle labbra e intatta voglia di divertirsi. Chiamatelo death-rock o in qualsiasi altro modo abbiate voglia, resta il fatto che il dark fumigante degli ex Beastmilk stavolta colpisce nel segno, dalla prima all’ultima nota. Impossibile restare lontani da “Motherblood”.