8.0
- Band: GRAVE PLEASURES
- Durata: 00:42:10
- Disponibile dal: 21/04/2023
- Etichetta:
- Century Media Records
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Dall’osservatorio privilegiato sul quale si sono installati, belvedere panoramico al di sopra di ansie, timori e scongiuri dell’umanità tutta, i Grave Pleasures hanno già deciso che non è il caso di sperare. Cambiare, salvare, mettersi al riparo: tutto inutile. E l’irreparabile è ormai qui, non c’è nemmeno più da aspettare oltre. È il caso di preoccuparsi? Per niente. Si accetta, si contempla, ci si gode quel che resta, stemperando in danze al rallentatore, languori, sguardi rapiti a cieli sempre più plumbei, o cosparsi di funghi atomici, i grovigli dell’animo.
Mentre “Motherblood” incalzava rombante di potenza immaginifica, chiamando al divertimento scatenato sull’orlo dell’abisso, “Plagueboys” è il passo immediatamente successivo. Non è più il caso di agitarsi, quello l’abbiamo fatto; adesso è il tempo della disillusione e del rimpianto, malinconicamente calmo e colmo di una surrealmente distesa estasi. I singoli diffusi nei mesi precedenti la sua uscita – in ordine di apparizione, “Society Of Spectres”, “Heart Like A Slaughterhouse”, “High On Annihilation” – hanno fatto bene intendere che non ci si poteva aspettare un “Motherblood pt. 2”, segnando un distacco forte dai tempi esagitati, le chitarre piene e multicolori, il clima torrido e palpitante di quell’album. È un tempo sospeso quello di “Plagueboys”, pulsante di una vitalità che scorre dolente senza scomporsi, un po’ depressa, un po’ quieta, perché non vi è più nulla cui opporsi.
Senza ulteriori sconvolgimenti nella line-up, rimasta la medesima da “Motherblood” ad oggi, il gruppo ha fatto praticamente tutto in casa, registrando in Finlandia con la supervisione generale del suo chitarrista Juho Vanhanen e di un altro membro degli Oranssi Pazuzu, Niko Lehdontie. Partendo da concetti semplici per inquadrare la dimensione sonora di “Plagueboys”, i Grave Pleasures hanno levato di peso buona parte della distorsione chitarrista, diluendo parecchio l’impetuosità punk e metal del predecessore – e di “Climax”, per quanto Kvohst e compagni tendano a tenere un certo distacco dalla breve esperienza Beastmilk – vezzeggiando il proprio lato pop, concupito inevitabilmente dalla soffusa luce della darkwave e del post-punk. Un rimescolamento delle proprie influenze che non snatura l’impianto sonoro complessivo, ne muta la prospettiva. Accordi minimali, riff cristallini e beati, tempi di batteria semplici e dolcemente ossessivi, il basso a incollarsi addosso e indurci in tentazione, i cinque rimodulano il proprio modo di intendere le influenze di base (Depeche Mode, Joy Division, Killing Joke tra le più urgenti), e rinfrescano il songwriting con un’attenzione ancora più marcata a melodie ariose, eteree, di variabile lucentezza.
Con un suono caldo e ovattato, adorabilmente confortevole, pieno e tutt’altro che invasivo, a contenere la straboccante creatività dei cinque, assistiamo allo scorrere di piccoli, eccentrici, mansueti gioielli di post-punk, pop e rock contemporaneo, picchiettati di sintetizzatori quanto basta e quando serve. I Grave Pleasures di oggi urlano – educatamente – sofficità e distensione: pur attraverso le brume dei tempi correnti, la loro interpretazione dei sentimenti dominanti nell’attualità si connota di una sinistra leggerezza. Le piccole, regolari, lacrime di sintetizzatori del primo singolo “Society Of Spectres” sono un riassunto plateale dell’importanza dei piccoli dettagli, di come da questi germoglino brani magici sulla scorta di un numero limitato e ben dosato di elementi. Alta la qualità della tracklist, ognuno può innamorarsi liberamente di una traccia o dell’altra, a seconda del momento, dell’aggancio che vi trova, dello stato d’animo. L’arpeggiare incantatore dell’apocalittica “Disintegration Girl”; il basso greve e il tono decadente di “Conspiracy Of Love”, con i sintetizzatori che gradatamente si fanno azzurrini e stranianti; il balletto tra macabro e romanticismo della orecchiabilissima “When the Shooting’s Done”; il senso di rimpianto diffuso dalla conclusiva “Tears On The Camera Lens”, così antitetica all’uragano di “Haunted Afterlife”, posta al termine di “Motherblood”.
Ovviamente un risultato così brillante su ogni fronte non sarebbe possibile senza un’altra prova eclettica e conturbante di Mat McNerney, qui frenato negli ardori ma sempre efficace sia nelle fasi più leggiadre e serafiche, che in quelle di incupimento e uso più costante delle note basse. Per quanto possa spiazzare ai primi ascolti, e probabilmente lasciare un po’ interdetti quelli che hanno consumato di ascolti “Motherblood” e “Climax”, il talento e la finezza di scrittura della formazione finnica non solo non si è perso per strada, ma è andato addirittura evolvendosi. Al di là dei comprensibili gusti, che potranno orientare le valutazioni verso questa o quest’altra loro uscita, “Plagueboys” è una pubblicazione eccellente e destinata a farsi ricordare.