7.0
- Band: GRAVEYARD (SWE)
- Durata: 00:38:01
- Disponibile dal: 29/09/2023
- Etichetta:
- Nuclear Blast
Spotify:
Apple Music:
“6” pensiamo non sia propriamente il disco che i fan degli hard rocker svedesi si sarebbero aspettati. Reduci da uno scioglimento-lampo nel 2016, i Graveyard erano rientrati nel giro con un album apprezzabile e di ampie vedute, “Peace”, nel corso del quale al consueto, energico, hard rock settantiano, si andava affermando un gusto ancora più retrò, rivolto a sonorità piuttosto soffuse e mansuete. Un’esigenza che all’epoca – in effetti cinque anni buoni sono già trascorsi – ben si incastrava a un impeto hard rock ancora massiccio e dinamico.
Le escursioni nel soul, nel rock sessantiano, nei morbidi registri cantautorali, apparivano in quel disco bilanciati a un’animosità sufficiente per non far storcere il naso ai fan del gruppo; al contempo, poteva servire a stuzzicare gli appetiti di qualcuno che fino ad allora, dei Graveyard, non aveva sentito il bisogno.
“6”, come anticipato, va un po’ oltre in questa ricerca delle tessiture rilassate e beate, compiendo per certi versi l’operazione svolta dai Kadavar negli ultimi lavori, “The Isolation Tapes” e la collaborazione con gli Elder sotto il nome di Eldovar. Un delicato crooning intriso di blues illanguidito, rarefatta psichedelia, malinconia lieve, prende pieno possesso dei registi stilistici degli svedesi, confezionando un disco lontano parente del resto della discografia.
Confermando il forte amore per i Led Zeppelin, “6” guarda a costoro come principale punto di contatto, guardando a quegli anni anche per la produzione morbida e leggera. Chitarra acustica e sintetizzatori dal fascino d’antan prendono piede a svantaggio delle chitarre elettriche, che anche quando sarebbero l’architrave dei pezzi presentano una conformazione poco dirompente e tendente, piuttosto, a un confortevole sonnecchiare.
L’intera tracklist è avvolta da questa necessità di un raccolto minimalismo, il voler raccontarsi in modo pacato e rilassato, ricorrendo a idee e sensazioni che avrebbero stonato con uno stile più irruente e scatenato. Quei piccoli semi piazzati qua e là in altri momenti della discografia germogliano allora appieno, portando la formazione in ambientazioni aventi sporadici punti di contatto con quanto era noto di loro. È come se “6” fosse una costola dei Graveyard principali, e forse come tale andrebbe preso l’album nella sua interezza.
Superato lo spiazzamento iniziale, viene da chiedersi se effettivamente un simile discorso possa funzionare completamente. La risposta è positiva, perché la competenza nel proporre un misto di rock sessantiano, blues, scampoli di country, da parte dei musicisti nordici, non è in dubbio: la qualità delle canzoni è buona, non raggiunge magari vette qualitative altisonanti, però non sconta nemmeno la presenza di riempitivi in scaletta.
Tre le tracce che offrono qualche emozione ‘elettrica’ propriamente detta: l’interlocutoria “Twice”, la più articolata “Just A Drop”, che vive invece di una calda alternanza di lenti arpeggiati e ripartenze briose, per un risultato finale convincente, e infine “I Follow You”, dal sapore western e imperniata su un grasso, ipnotizzante giro di basso.
La polpa dell’album è altrove, in dilatate cantilene che sanno di paesaggi, fisici e mentali, immoti e paciosi; ogni tocco strumentale cerca un’emozionalità mansueta, i sintetizzatori e le chitarre dialogano con grande flemma e anche sul piano vocale l’appena arrochita voce di Joakim Nilsson si porta sui tipici toni del crooning. Si utilizzano spesso cori e seconde voci dal sapore soul, con un effetto molto gradevole, come in “No Way Out” e “Breath In, Breathe Out”, ottime per accrescere il potenziale di struggimento delle composizioni. Menzione speciale per “Sad Song”, che tiene fede al suo titolo e ci fa partecipi delle trame più uggiose e serenamente autunnali di “6”.
Non avranno il tocco fatato di un gruppo come i Rival Sons, nel dilettarsi con suoni così esili e sognanti, ma questa svolta dei Graveyard verso la rarefazione e l’intimismo non dispiace, anche se l’incedere molto mellifluo può essere un discreto scoglio se ci si aspetta da loro l’hard rock di “Lights Out” o “Innocence & Decadence”.