9.5
- Band: GREEN DAY
- Durata: 00:39:34
- Disponibile dal: 01/02/1994
- Etichetta:
- Reprise Records
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Il 1994 è l’anno del cambio della guardia tra il grunge e il pop-punk, e se ha segnare la fine del primo sarà il suicidio di Kurt Cobain ad aprile, l’esplosione del secondo avviene un paio di mesi prima con l’uscita di un album destinato a fare la storia del genere e della band stessa. Come nel caso degli Offspring, che qualche mese dopo completeranno l’opera con “Smash”, anche “Dookie” (nome ispirato alla diarrea che all’epoca colpiva frequentemente la band, al punto che il titolo in origine avrebbe dovuto essere “Liquid Dookie”) è il terzo album dei Green Day, ma le analogie con i ‘rivali’ finiscono qui. Dopo un paio di uscite che ottengono un buon riscontro a livello underground (tra cui “Kerplunk”, bestseller assoluto della Lookout Records) e un paio d’anni di rodaggio in tour, nel 1993 i poco più che ventenni Billie Joe Amstrong, Mike Dirnt e Tré Cool firmano per la Reprise Records, convinta della bontà del progetto da Rob Cavallo, produttore che di fatto sarà il quarto membro della band fino ad “American Idiot”. Registrato in sole tre settimane, il disco viene lanciato dal primo singolo “Longview”: un inno all’ozio nel senso meno ciceroniano del termine (dalla masturbazione alla marijuana) introdotto da un ormai storico giro di basso (scritto da Mike sotto l’effetto del LSD) e accompagnato da un video in heavy rotation su MTV, che inizia a far circolare il nome della band tra i giovani. Per il botto vero però servirà ancora qualche mese, quando irrompe nelle radio e in TV la canzone destinata a diventare la firma non solo della band ma di un intero genere: stiamo ovviamente parlando di “Basket Case”, tre minuti e quattro accordi che riportano il punk rock in cima alle classifiche (dal secondo posto della Billboard Chart al quarantacinquesimo in Italia, unico paese fuori dalla Top 10), contribuendo paradossalmente ad accrescere quella stessa ansia descritta magistralmente nel testo. Le successive “Welcome To Paradise” (ripresa da “Kerplunk”) e “When I Come Around” continueranno a spingere le vendite anche nel 1995, ma sarebbe ingiusto derubricare il successo di “Dookie” a una manciata di singoli di successo. Dai due minuti esplosivi dell’opener “Burnout” alle schitarrate catartiche della conclusiva “F.O.D.” (acronimo di ‘Fuck Off and Die’, cui segue la ghost track “All By Myself”, breve pezzo acustico ad opera del batterista) passando per la coda ritmica di “Chump” (di fatto un tutt’uno con l’attacco di “Longview”), il power pop saltellante di “Pulling Teeth” e il saliscendi di “She” (ulteriore prova di come la sezione ritmica Mike Dirnt e Tré Cool vada oltre lo stereotipo dei 4/4), nei tre quarti d’ora di “Dookie” è racchiusa l’essenza dei Green Day, portabandiera di una staffetta che dai Buzzcocks ai Descendents raggiunge qui il suo apice commerciale. Il conseguente successo, con venti milioni di copie vendute, li porterà in futuro a fare scelte più o meno discutibili (dal più rabbioso “Insomniac” al risorgimento di “American Idiot” passando per i più retro “Nimrod” e “Warning”), ma comunque la si veda il trio di Berkley resta una delle più apprezzate rock band del terzo millennio e il loro esordio su major la pietra angolare del punk rock anni ’90, nonché un disco che ha segnato una generazione come – e forse ancor più di – “Nevermind”.