
8.0
- Band: GREEN LUNG
- Durata: 00:43:10
- Disponibile dal: 22/10/2021
- Etichetta:
- Svart Records
- Distributore: Audioglobe
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C’è ancora bisogno di hard rock sabbathiano. Ce n’è un gran bisogno. Non quello accanitamente devoto al verbo di Tony Iommi, scimmiottante riff e atmosfere con nera piaggeria. No, serve quello che, pur ostentando sfacciatamente le sue influenze, ci sbatta in faccia canzoni pirotecniche, confortevolmente trascinanti, baluginanti di bizzose note d’organo, chitarre heavy e incalzanti, un certo non so che di magia e divertimento occulto a permeare ogni istante. I Green Lung possono essere una delle migliori risposte possibili a tale richiesta: inglesi, in giro dal 2017, all’attivo prima di “Black Harvest” un demo, un EP e un primo full-length, il pachidermico e lisergico “Woodland Rites”. Tale prima opera promulgava un pensiero doom tipicamente inglese, al centro di un ipotetico triangolo rappresentato, appunto, dai Black Sabbath più ossianici, passando per Electric Wizard e Cathedral: molto rock’n’roll, tanta soffocante pesantezza fuzzona, richiami a sostanze psicotrope d’intrattenimento e una certa curata indolenza stonerofila abbellivano un esordio su lunga distanza efficace, soprattutto pieno di belle canzoni e dalla varietà di fondo non propriamente attesa su questi lidi.
Due anni più tardi, la formula si perfeziona e regala un album ancora più brillante e coinvolgente, pieno di tracce killer e un’istintività rock’n’roll smaccata. Viene a indebolirsi il raffronto diretto con le peripezie degli autori di “Dopethrone”, a favore di un’esaltazione del verbo di Lee Dorian negli iconici “The Ethereal Mirror” e “The Carnival Bizarre”, coi Black Sabbath onnipresenti e bellamente in primo piano grazie alla voce nasale di Tom Templar. Sono panorami tanto oscuri quanto fiabeschi quelli dei Green Lung, che dismettono gli abiti stregoneschi, o meglio, li ammantano di poesia e divertimento, regalandoci una tracklist rombante. Il dialogo stretto, continuo e produttivo tra chitarre e organo, prima non così sopra le righe, fa da leva ad episodi equamente suddivisi tra esaltazioni di potenza hard rock, feeling, richiami folk orrorifici e tentazioni space. Un rosario di soluzioni che, per lo spessore e il dedalo di sfumature del suono, può facilmente ricordare un’altra baldanzosa realtà dei giorni nostri quali i barbuti e carichissimi Kadavar, trio berlinese al quale i Green Lung si accostano anche per la qualità costantemente elevata del songwriting, un fluire ininterrotto di riff contagiosi e una capacità innata di andare dritti al punto, ammaliando fin dalle prime note.
L’organo zompetta un po’ maligno, un po’ furbetto, alleggerendo la portata dei riff e lanciando la band, velatamente, verso la psichedelia, senza che queste tentazioni annacquino l’impatto chitarristico, il quale rimane squassante pur nel piglio ben poco serioso che vanno a prendere le varie “Old Gods”, “Leaders Of The Blind”, “Reaper’s Scythe”, ingentilite da seconde voci pacate e quasi rasserenanti. Il gruppo è decisamente a suo agio anche nel flirtare con sonorità acustiche: ne sono prova “Graveyard Sun” e “Born To A Dying World”, svelanti una certa vena romantica e una sensibilità melodica piuttosto sviluppata. Anche questa, molto sabbathiana e molto settantiana, un vero ‘ritorno alle origini’ del rock che quando porta a tali risultati, non può che trovare il nostro plauso. L’afflato lugubre non è opprimente, quello dei Green Lung è il doom del divertimento, melodicamente curato e deflagrante; quando le dilatazioni psichedeliche si bilanciano ad impeto metallico da NWOBHM, ecco altre prelibatezze, con “Upon The Altar” e “Doomsayer” a far ballar le streghe. Se si cercano innovazioni ed esperimenti, meglio rivolgersi altrove, ciò dovrebbe esser chiaro: d’altronde, i Green Lung non sono affatto interessati al tema, mentre se cercate una riverniciatura come si deve dei dogmi doom e hard rock, fatevi avanti.