6.0
- Band: GREEN LUNG
- Durata: 00:42:19
- Disponibile dal: 03/11/2023
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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Che sia già finita la magia, possibile? Possibile.
I Green Lung nel giro di un paio di album si erano creati una bella fama di compagine hard rock a sfondo doom/sabbathiano di tutto rispetto, portando in dote una gran carica, canzoni trascinanti e pulsanti vitalità, un invidiabile equilibrio fra trame di agile respiro e soffocanti digressioni occulte/orrorifiche. Un ottimo compendio di divertimento, pesantezza, atmosfere dannate e orecchiabilità che prende in un attimo ma non evapora tanto facilmente.
Con il passaggio su Nuclear Blast – e la transizione fuori dall’underground sappiamo non essere sempre indolore, anzi – è accaduto probabilmente quello che gli appassionati della formazione inglese temevano: un’eccessiva semplificazione e diluizione della formula vincente di “Woodland Rites” e “Black Harvest”, a favore di un’impostazione più leggera, ammiccante, e che guardasse anche al di fuori del circuito di appartenenza.
Viene quasi da pensare che i ragazzi inglesi abbiamo provato, tutto d’un colpo, un salto ‘alla Ghost’, ossia prendere tutta la fascinazione per suoni oscuri e sinistri, declinarla in un’ottica rock patinata, infiocchettarla quel che basta di organetti e chitarre rumorose, al fine di ricordare i propri trascorsi: quindi, passare all’incasso. Premesso che se l’idea si fosse concretizzata in pieno ne saremmo stati assai soddisfatti, vista la qualità comunque offerta dai succitati Ghost da quando sono diventati un gruppo ‘per le masse’, coi Green Lung per adesso freneremmo gli entusiasmi.
Ad andarsene pressoché integralmente, salvo qualche rado passaggio, è l’alone doom tipicamente anglosassone: quell’idea di nebbia cimiteriale che si posa sulle cose e le inghiotte in una grigia, temibile, soffice uniformità, scivola via e si disperde nell’aria. Mentre nei primi due album e nel primo EP si pendolava intelligentemente tra cupezza e divertimento, ingenerando facilmente accostamenti ai Cathedral più scanzonati e rolleggianti, oppure a degli Eletric Wizard dal tono divertito, adesso questi paragoni vengono difficili da farsi, a parte alcune occasioni.
A tenere i contatti con i Green Lung del recentissimo passato possiamo trovare “One For Sorrow”, nettamente più heavy, grassa e maligna del resto della tracklist. In questo caso la band sta ben salda sui principi sonori che l’avevano contraddistinta finora, intrecciando chitarre e organo in un pezzo mefistofelico ma agile, intriso di horror di facile fruizione, melodie accattivanti, senza buttare via le connotazioni metalliche. Non è che ci si debba fissare sul rimanere nell’alveo metal a tutti i costi, solo che quando si sceglie una strada diversa, bisogna poi avere le qualità per riuscire a percorrerla.
I Green Lung non paiono ancora pronti a confrontarsi al meglio con quanto succede fuori dalle coordinate doom di partenza: l’ariosità e gli svolazzi di tastiere di “The Forest Church” e “Mountain Throne” sono gradevoli, ma appaiono abbastanza innocui, scolastici, le melodie chitarristiche e vocali sono appena ‘carine’, nulla che dia l’impressione di poterci appassionare a lungo. Sul piano chitarristico si è perso parecchio mordente, e considerando la brillantezza stilistica e la capacità di scrivere brani dirompenti e vitali, si poteva facilmente dimenticare una certa deriva manieristica dei riff.
Adesso tutto pare essere stato edulcorato per arrivare in modo indiscriminato un po’ a chiunque, cercando quasi il confronto coi Ghost sullo stesso campo e perdendolo amaramente (“Maxine (With Queen”). Travalicata la noiosetta ballata dal sapore folk “Song Of The Stones”, il finale di tracklist guadagna un minimo di spessore: “The Ancient Ways” recupera in parte la profondità dei capitoli precedenti, con degli intermezzi tastieristici meno divertiti e lievemente più d’atmosfera, “Hunters In The Sky” rimette almeno in circolo qualche scampolo del dinamismo perduto, salvo perdersi leggermente verso la fine (difetto comune a tante tracce di “This Heathen Land”). Discorso a parte per la più ricercata “Oceans Of Time”, che potrebbe suonare come un riuscito mix di Queen, Ghost e Black Sabbath, grazie a un’interazione tra chitarre e tastiere ben studiato e una prestazione vocale abbastanza varia e passionale.
Nonostante la cura per la veste sonora, la scorrevolezza delle tracce e la sensazione che, in fondo, i musicisti ci abbiano messo cervello, sentimento e conoscenza, l’ascolto è in diversi punti un’esperienza abbastanza piatta. Non è propriamente brutto o indecoroso, “This Heathen Land”, solo a larghi tratti abbastanza monotono e prevedibile, eccessivamente ingentilito e annacquato.
Detto questo, il suo taglio decisamente facile e accessibile potrebbe pure renderlo la pubblicazione dei Green Lung di maggior successo. Staremo a vedere.