7.0
- Band: GREY SKIES FALLEN
- Durata: 00:53:40
- Disponibile dal: 08/04/2021
- Etichetta:
- Paragon Records
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La storia dei Grey Skies Fallen è lunga e travagliata: nati a New York nel 1996 come Eve Of Mourning, l’anno successivo hanno adottato il nome attuale ed inciso un demo; il debutto su lunga distanza è avvenuto nel 1999 con “The Fate Of Angels”, ma è soprattutto “Tomorrow’s In Doubt” del 2002 a stupire in modo positivo. Da lì in poi, la band, che al momento conta solo due dei membri originari, produce con un ritmo lento ma abbastanza regolare album ed EP, mantenendosi sempre su un livello qualitativo buono.
“Cold Dead Lands” è la quinta opera in studio degli americani, uscita nel 2020 in maniera indipendente e ora ripubblicata con l’ausilio della Paragon Records e, per comprendere come le cose siano state fatte in grande stile, basti pensare che il disco è stato mixato e masterizzato agli Unisound Recordings di Dan Swanö e l’artwork è stato curato da Travis Smith. In questi sei pezzi, l’oscurità del doom si fonde con la ferocia del death metal, ma sempre in modo controllato e puntando su atmosfere grigie e plumbee, che sembrano la diretta espressione del moniker scelto; molto spesso fanno capolino anche suggestioni epic doom che si integrano alla perfezione nel tessuto musicale, in lunghi brani che, a causa della loro struttura altalenante e complessa, acquistano anche un sapore vagamente progressive. In un certo senso, si potrebbe parlare di un punto di incontro tra band che sembrerebbero lontanissime fra loro, come Amorphis o Draconian da una parte e Candlemass dall’altra. Buono anche il cantato, che si divide tra clean e growl con naturalezza e personalità, pur non uscendo mai dalla tradizione del genere. Se il risultato è convincente e permette al terzetto di differenziarsi stilisticamente in un ambito, quello del death-doom, affollatissimo, c’è anche da aggiungere che il disco scorre formalmente perfetto ma senza particolari sussulti a livello compositivo, dando l’impressione che il potenziale sia enorme ma parzialmente inespresso. Tuttavia, quando le cose funzionano al meglio, come negli undici minuti di “Picking Up The Pieces” o nella titletrack, l’ascolto si fa veramente interessante, tanto da far pensare che un ulteriore salto di qualità sia ancora possibile.