6.5
- Band: H.E.A.T.
- Durata: 00:45:08
- Disponibile dal: 11/04/2014
- Etichetta:
- earMusic
- Distributore: Edel
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Provenienti da Upplands Väsby, la medesima cittadina svedese che ha dato i natali ai ben più celebri Europe, gli H.E.A.T giungono al loro quarto ed atteso studio album, che sulla carta dovrebbe permettere loro di abbattere le mura poste tra la scena underground ed il mainstream internazionale. Nella pur breve carriera, i Nostri sono balzati agli onori della cronaca come una delle nuove leve dotate di inappuntabili credenziali compositive, capaci di rivisitare in maniera credibile il sound cromato che imperava negli anni Ottanta. “Tearing Down The Walls” presenta dei piccoli ma significativi cambiamenti introdotti nel songwriting e non solo. La formazione viene ridotta a cinque elementi, a causa della dipartita del chitarrista Dave Dalone, e di conseguenza il sound risulta meno corposo, ma ne guadagna in immediatezza. Gli episodi contenuti in questo lavoro sono prevalentemente incentrati su un vitale hard rock del quale viene ulteriormente accentuato il lato glamour, a discapito dei marcati input di scuola AOR che nel recente passato hanno fatto drizzare le orecchie a ben più di un appassionato. In questa miscela troviamo amalgamati con innegabile bravura ed un pizzico di astuzia i chorus ruffiani che hanno fatto la fortuna dei KISS (a tal proposito, la title track ricorda un po’ troppo “We Are One”), fusi con l’approccio radio friendly degli Europe e dei Mr.Big più edulcorati, il tutto condito da una produzione al passo coi tempi a cura di Tobias Lindell (Europe, Hardcore Superstar). Siamo pronti a scommettere che la zuccherosa power ballad “All The Nights” manderà in visibilio le teenager dal cuore infranto, nonostante si spenga da sé soltanto dopo un paio di ascolti. Le cose migliorano sensibilmente quando gli H.E.A.T decidono di alzare il tasso di adrenalina con “A Shot At Redemption” e “Inferno”, esemplari nel proprio dinamitardo fragore che esplode indomito all’altezza del ritornello. Le velleità drammatiche e pompose vengono suggellate da “Mannequin Show”, brano oltremodo serioso che ha fatto storcere il naso a una buona fetta della fan base, ma è altrettanto impossibile ignorare l’efficacia del chorus. Il blues patinato preso in prestito dal songbook degli Enuff Z’nuff prende vita in “We Will Never Die”, inequivocabile dichiarazione di intenti di una band che non ha la minima intenzione di gettare la spugna nonostante le recenti avversità. I restanti episodi scivolano via senza lasciare un segno tangibile nell’animo di chi scrive, in parte deluso da un full length formalmente inattaccabile, dal quale però si evidenziano le prime crepe di una formazione che deve presto ritrovare il bandolo della matassa. Disco di transizione.