8.0
- Band: HAKEN
- Durata: 01:01:27
- Disponibile dal: 04/29/2016
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Universal
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Da un po’ di album a questa parte, ma diciamo pure sin dall’esordio “Aquarius”, un po’ tutte le uscite dei britannici Haken sono state contraddistinte da una certa aspettativa, immaginiamo però diversa per ciascun ascoltatore. Già, perché gli Haken sono tutto fuorché un gruppo lineare con una strada definita davanti a loro, quindi ‘aspettarsi qualcosa’ da loro in termini precisi è terribilmente difficile. C’è chi infatti potrebbe sperare in un proseguimento sulla via di un prog metal classico di marca Dream Theater; qualcun altro potrebbe invece incrociare le dita per un ispessimento del suono e un esacerbamento della componente meramente tecnica, sperando che i semi piantanti nel fertile suolo della band durante il tour con i Between The Buried And Me crescano carichi di buoni frutti; qualcuno ancora potrebbe invece sperare di sentire sempre più influssi Anni ’80, accompagnati magari da quel prog rock settantiano di marca Yes o Genesis che ogni tanto – in realtà, spesso – si sentiva sulle tracce di “The Mountain”. Insomma, l’avrete capito, a maggior ragione se conoscete e seguite la band: attendere qualcosa di preciso in termini di direzione musicale dagli Haken è molto difficile. Ma se a questo punto potete ben pensare che questa oggettiva difficoltà si specchi in una pari difficoltà da parte della band nell’accontentare tutti… beh, vi sbagliate di grosso. Il fatto è che, sorprendentemente, con “Affinity” il gruppo inglese capitanato dal singer Jennings riescono ad andare in tutte le sopraccitate direzioni (e anche in altre!) contemporaneamente, aprendo ulteriormente il proprio ventaglio stilistico e portandolo a livelli di ampiezza davvero difficili da immaginare. E questa loro inestimabile e unica caratteristica la percepiamo subito, sin dall’opener – dopo la breve intro – “Initiate”, brano di quattro minuti che ci introduce l’album con sfumate divagazioni prog dal vago sentore alla Leprous dei dischi più recenti. Protagonista da subito la peculiare vocalità quasi ‘fragile’ di Jennings, che crea sempre un piacevole contrasto con il riffing invece massiccio e tangibile dei rodati Henshall e Griffiths. Non ci vuole però poi molto prima di potersi gustare i sopra citati influssi prog rock alla Yes, in quanto la successiva “1985” è introdotta proprio da gustose tastiere proprio in quella chiave. Il brano è lungo, supera i nove minuti, e passa agilmente appunto dal prog rock influenzato dall’heavy Anni ’80 a partiture complesse dalla chiara matrice Rush, mostrando in una sola traccia l’intera portata del metamorfismo mostrato dalla band londinese. All’altezza della quinta traccia, dopo cioè le piacevoli sezioni groovy della corta “Lapse”, i Nostri sfoderano il pezzo da novanta e piazzano al centro del disco la seconda, e più lunga, suite, ovvero i quindici minuti della cangiante “The Architect”. Quindici minuti di avventurose architetture sonore, che passano dal fraseggio dei già citati Between The Buried An Me a costruzioni ancora più arzigogolate all Cynic per finire poi sul progressive dai sapori ‘retro’ di alcuni dischi degli Opeth. Un vero tripudio di influenze insomma, ma che riesce perfettamente nell’importante compito di non annoiare, e di non smarrire l’ascoltatore all’interno di un panorama musicale dai confini appunto così labili. “Earthrise” e “Red Giant” portano un po’ di respiro e, per così dire, ‘fissano’ il suolo sotto i nostri piedi, fornendoci con la prima un primo squarcio definito di melodie a tratti anche radiofoniche e con la seconda un’attenta ispezione dell’aspetto più elettronico e sintetico della musica prog. Dopo quest’abbuffata ci saremmo forse anche accontentati di chiudere qui, ma le ultime due portate risultano altresì prelibate: la pesantezza djent delle varie parti strumentali della tecnicissima “The Endless Knot” ci fa infatti girare la testa, prima del KO finale rifilatoci dai dieci minuti di “Bound By Gravity”, altra suite assolutamente multiforme ma senza però gli spunti a volte eccessivi della già analizzata “The Architect”. Insomma, che dire? Il cammino degli Haken sembra inarrestabile. Ma non è l’inarrestabilità del centravanti di sfondamento che corre dritto e travolge tutti; è piuttosto l’elusività donata loro da un cammino sempre a zigzag e pieno di scarti laterali, un percorso che fa dell’imprevedibilità e del trasformismo la propria arma principale. E, ciliegina sulla torta, gli Haken riescono a mantenere coerenza, marchio e personalità riconoscibile anche su un percorso così apparentemente senza regole ne fisse direzioni. Se non è magia, poco ci manca.