8.0
- Band: HANK VON HELL
- Durata: 00:39:10
- Disponibile dal: 15/06/2020
- Etichetta:
- Columbia
- Distributore: Sony
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Il debutto di Hank Von Hell era stato definito da più parti come il disco che era mancato nella discografia dei Turbonegro. Sicuramente “Egomania” è stato un buon disco, anche se ci troviamo tra gli estimatori del recente “RockNRoll Machine”, quale riprova che anche senza Hank la band norvegese ha molto da dire. Insomma, la posizione era scomoda alla vigilia di questa recensione: si tratta quasi di scegliere la mamma o il papà, o di rassegnarsi a un equilibrismo quasi ipocrita nel gioco tra le due parti. Ma per fortuna ci toglie dall’imbarazzo e dal perbenismo delle parole Hank stesso, con un ritorno che suona come una gragnuola di esaltanti cazzotti in faccia, che ci lasciano con gli occhi neri, per citare il titolo di uno dei brani presenti. Gli ospiti sono diversi, da Guernica Mancini dei Thundermother, che aggiunge la sua voce abrasiva e potente su “Crown” a due membri dei Sum 41, passando per un narratore di eccezione quale trait d’union in alcuni brani, ossia l’attore Frankie Loyal; tutti al servizio di questo ritrovato istrione. Dopo una breve intro dalle tonalità quasi horror, entriamo subito nel vivo con la titletrack, un brano scanzonato e divertente retto da un riff che trasfigura in chiave metal le classiche sonorità garage punk scandinave e da un ritornello che si incolla in testa all’istante. E dove soprattutto si sente la mano di Tom Dalgety in console: sono diversi i passaggi nel disco che puzzano meravigliosamente di Ghost, solo in chiave più squisitamente rock. Analoghi ritmi trascinanti emergono sulla seguente “Danger Danger!”, mentre “Blackened Eyes” è il primo di molti brani che occhieggiano efficacemente agli anni Ottanta (come “Crown” o la bizzarra “Radio Shadow”), a metà strada tra glam e punk rock; componente quest’ultima che esploderà più avanti nella facilona ma riuscitissima “Am I Wrong”. Lo stesso decennio trova una declinazione diversa su “Disco”, e inutile dire che il pezzo vi farà desiderare di avere una palla di specchi in casa: basso pulsante, una tastiera retrò e una linea vocale suadente, a comporre il brano più particolare (e uno dei più riusciti) del lotto. Dopo l’intermezzo di “Video Et Taceo” si riparte con tanta adrenalina su “Velvet Hell”, dove Billy Idol incontra gli Hellacopters, e il manifesto “Forever Animal”: altro pezzo bubblegum dal meraviglioso potenziale pop, in cui pure il passato più glorioso dei Turbonegro riemerge con forza. Il finale è affidato alla pomposa e ritmata “13 In 1” e a un’outro, che riprende ed esalta le sonorità della prima traccia, a conferma di come “Dead” sia un disco più oscuro del suo predecessore, e non solo per l’esplicito titolo, ma al tempo stesso più divertente e catchy. Ed è inutile stupirsi di fronte a quello che è, per certi versi, il lavoro catartico di un artista che degli eccessi e dei paradossi ha fatto una ragione di vita.