HARK – Machinations

Pubblicato il 17/02/2017 da
voto
7.0
  • Band: HARK
  • Durata: 00:46:55
  • Disponibile dal: 24/02/2017
  • Etichetta:
  • Season Of Mist
  • Distributore: Audioglobe

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Di questi tempi va così. Quattro/cinque giovani musicisti provvisti di barba e tatuaggi in bella mostra si incontrano, iniziano a jammare assieme e ad accumulare riff grevi come il passo di un elefante, affascinati da Neurosis, Sleep e Melvins. Poco dopo mettono in moto la macchina del tempo e vanno più indietro, a caccia dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath, ne catturano – o rubano, a seconda dei punti di vista – suoni e modo di porsi, li infoltiscono delle grassezze consentite dalle produzioni moderne, e voilà, un disco stoner/sludge/doom perfetto per le nuove generazioni di metallari un po’ hipster è bello che pronto. Estremizziamo i concetti per dire che gli Hark si sono incanalati in una trasformazione simile a quella di Mastodon e Baroness senza quasi passare dal via, ossia frequentando appena sonorità ruvide ed estreme, appropriandosi, già nel secondo full-length “Machinations”, di uno stile che presenta rimandi e suggestioni care a tonnellate di hard rock/blues dei Seventies e sludge melodico degli anni 2000. Dottrine rock sdoganate da dischi controversi quali “The Hunter” e “Yellow & Green”, anche se nel caso specifico non mancano la potenza e l’impatto di uno “Static Tensions” (Kylesa) o di un “Taste The Sin” (Black Tusk) e un tenue, ma solido e fondamentale, retaggio progressive alla “Crack The Skye”. Superata una prima sensazione di leggera ‘presa per i fondelli’, perché ci sembra di conoscere già lo spartito dell’intero disco dall’ascolto del primo minuto di “Fortune Favours The Insane”, non possiamo non riconoscere agli Hark un songwriting degno di questo nome. Accanto ad affondi rolleggianti che guardano senza vergogna a una rappresentazione dell’hard/blues ruggente, confortata da un suono roboante ed equilibrato, peschiamo intorbidamenti che chiamano in causa la brusca attitudine dei Crowbar. Essa non rimane attanagliata nell’immobilismo in virtù di ritmiche scattanti, strizzanti l’occhio alle idee contorte ma scorrevoli escogitate da Brann Dailor nei solchi di un “Once More ‘Round The Sun”. Mastodon che riecheggiano praticamente ovunque in “Machinations”, e che vengono scavalcati e lasciati un po’ in disparte quando gli Hark si rilassano e abbracciano invece la causa di certo retrò rock odierno. I dondolamenti  elettrici attraversati da prolungati assoli, suonati con grande trasporto, non sono lontani dalle riuscite ultime pubblicazioni di Zodiac e Kadavar. La fusione di questi momenti con il feroce piglio sludge avviene in piena armonia, gli Hark sanno quello che fanno, denotano pieno controllo delle dinamiche e, pur non avendo chissà quale fantasia, sanno valorizzare i refrain evitando di porci l’attenzione in maniera nauseante. Le buone prove dei singoli – anche la voce non si scompone in urla troppo estreme o clean vocals mielose – e il minutaggio ragionevole avvalorano l’impressione che “Machinations”, derivativo quanto si vuole, sia un album meritevole di ascolto e nient’affatto esile. Volendo scovare una possibilità di passare al livello successivo ed elevarsi dalla media, fossimo nei musicisti gallesi implementeremmo l’uso di tastiere vintage – compaiono solo in pochi sprazzi – e punteremmo a dilatate progressioni, come avviene nella traccia più lunga, la conclusiva “The Purge”. In quasi nove minuti, il gruppo esibisce qui il meglio del suo repertorio, suggerendo che potrebbe prodursi in qualcosa di ancora più interessante di quanto offerto attualmente. Paventano e lasciano intuire, gli Hark, ma per ora preferiscono giocare sul sicuro. In questi casi le maestre direbbero: ‘Alunno promettente, potrebbe sforzarsi di più’. È il nostro giudizio attuale sugli Hark.

TRACKLIST

  1. Fortune Favours the Insane
  2. Disintegrate
  3. Nine Fates
  4. Speak in Tongues
  5. Transmutation
  6. Son of Pythagoras
  7. Premonitions
  8. Comnixant 3.0
  9. The Purge
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