7.5
- Band: HARM'S WAY
- Durata: 00:34:53
- Disponibile dal: 29/09/2023
- Etichetta:
- Metal Blade Records
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Abbiamo conosciuto e seguito gli Harm’s Way fin dai loro primi lavori ufficiali, incuriositi dalla loro evoluzione che li ha visti partire da lidi metalcore a tratti molto grezzi e pesanti, spesso forti di pronunciate influenze death metal, per approdare a un suono più freddo e definito, dai netti contorni industrial.
Ormai la traccia sonora degli statunitensi è ben definita, attesta su ambientazioni gelide e un incedere che in certi casi si fa vagamente meccanico, nonostante l’interpretazione dei ragazzi continui a far emergere un’urgenza e una spontaneità di marca hardcore. Un incontro tra uomo e macchina che si traduce in uptempo ebbri di ignoranza alternati a puntuali rallentamenti in cui il suono si comprime e ispessisce, sospinto da riff che cercano più la pesantezza che l’ingegno. A contorno, strutture disarmoniche, pulsazioni elettroniche e intarsi industrial che striano il tessuto sonoro senza mai esagerare, lasciando appunto che siano le staffilate partorite dalla strumentazione ‘classica’ a restare le principali protagoniste.
A livello di atmosfera, “Common Suffering” è senz’altro l’opera più torbida sinora confezionata dal quintetto: buona parte della tracklist risulta infatti intrisa di una costruzione del mood e della tensione che alterna luci e ombre, riflessi, geometrie in certi casi spiraliformi, che richiamano le paranoie di marca Full Of Hell, pur in un contesto più prettamente metallico.
È evidente come gli Harm’s Way oggi siano sempre più interessati alla creazione di un suono denso, capace di picchiare duro, così come di alternare umori, giocando sulle ambivalenze tra euforia e cupezza, tra slanci passionali e sospensioni meditabonde. I Godflesh e la loro aura glaciale sono senza dubbio un’altra delle influenze primarie della formazione americana, ma potremmo citare anche i Meshuggah, anche se, fortunatamente, la band si guarda bene dallo scimmiottarne l’approccio chitarristico a oltranza. Non siamo dalle parti di quel djent innocuo che poco ha da offrire oltre al solito e ormai ampiamente prevedibile interplay fra riff staccati e doppia cassa: gli Harm’s Way cercano esasperazione e alienazione, restando concentrati sulla timbrica, sulle variazioni, sul dinamismo che concatena i vari pattern, il tutto senza mai distogliere lo sguardo da una realtà cupa e da una verve inquieta e battagliera.
“Common Suffering”, pur presentando anche un intervento di voce femminile – a cura di King Woman – su “Undertow” e un episodio maggiormente incentrato su una sorta di sludge atmosferico come la conclusiva “Wanderer”, resta ruvido, conciso e sporco, sempre più proiettato verso la ricerca di mondi espressivi più maturi e personali, dallo stile solido e dall’immaginario che puntualmente evoca paesaggi di pura devastazione.