6.5
- Band: HATEBREED
- Durata: 00:42:20
- Disponibile dal: 16/10/2009
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Warner Bros
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Ahia. Ci siamo. Ed era pressoché inevitabile. Dopo i timidi(ssimi) accenni sperimentali messi in mostra tre anni fa con “Supremacy”, i paladini dell’hardcore metallizzato, Hatebreed from Connecticut, piazzano sul mercato un disco di transizione che più di transizione non si può. Lo stato catatonico del trend metal-core – che ha visto proprio nel gruppo di Jamey Jasta uno dei trascinatori e più indefessi protagonisti – ha probabilmente posto gli Hatebreed di fronte a qualche domanda di troppo: continuare a intestardirsi onehundredpercent nello stile che li ha resi celebri evidentemente non era destino, e così i ragazzi di New Haven hanno optato in modo deciso per variare diversi aspetti del loro sound ed introdurre alcuni elementi seriamente innovativi e a dir poco rischiosi, soprattutto considerata la chiusura mentale dell’hardcore-fan medio. La dice lunga, in questo intento, la scelta di un titolo omonimo a carriera già avanzata: di solito si pensa ad un nuovo inizio, no? Ed in un certo senso è proprio così, perché troppi nuovi dettagli sono stati introdotti dagli Hatebreed in “Hatebreed”: non che le sfuriate hardcore siano sparite, men che meno i rallentamenti spaccaossa e i groove più collassanti, ma ovunque qui dentro si notano i segni del cambiamento, a partire dal riffing più metal, più certosino e molto più tecnico per arrivare ad alcuni assoli al fulmicotone; tutto pare più studiato, arrangiato nei minimi particolari, e la ricerca della varietà pare essere stato uno degli obiettivi principali di Jasta & Co.. E appunto, che dire della voce del buon Jamey, a tratti divenuto quasi un cantante normale: l’esperienza coi Kingdom Of Sorrow l’avrà ancor più spronato a mettersi parzialmente in gioco tramite una manciata di linee vocali classificabili come melodiche. Può piacere o non piacere, d’accordo. Ed è qui che sta tutto il rischio insito in questo lavoro: è bello o no? Per quanto ci riguarda, i pezzi da noi preferiti sono guarda caso quelli vecchio stampo, mazzate sulla nuca del calibro di “Everyone Bleeds Now”, “Through The Thorns”, “Not My Master” e “Merciless Tide”. Ottima anche l’apertura “Become The Fuse”: sebbene il riffing portante sia già lontano dallo standard della band, l’opener è una delle tracce che meglio fungono da passaggio tra il vecchio ed il nuovo. Pollice giù, invece e purtroppo, per il singolo “In Ashes They Shall Reap” – davvero poca cosa – e per alcune soluzioni troppo azzardate per un gruppo che ha sempre fatto dell’ignoranza la sua arma migliore: il coretto uoh-uoh in “No Halos For The Heartless” è penoso e tutta “Every Lasting Scar” risulta insipida e innocua, quest’ultimo aggettivo che mai avremmo pensato di associare alla musica degli Hatebreed. Aggiungete pure qualche brano in cui il combo americano entra in crisi d’identità – “Between Hell And A Heartbeat”/Slayer, “Hands Of A Dying Man”/Metallica, “As Damaged As Me”/As I Lay Dying – e la strumentale “Undiminished”, in pieno territorio Heaven Shall Burn, e avrete il quadro completo di un platter che si mostra mediamente appagante, non troppo immediato, tutto sommato lento e in parte deludente. Il problema è che si parla degli Hatebreed, mica dei ragazzini arrivati l’altroieri: ci piacerebbe aver scritto di un disco paragonabile ad un’overdose di adrenalina, per cui è normale essere un po’ abbacchiati quando ci troviamo dentro anche del bromuro…