5.0
- Band: HATESPHERE
- Durata: 00:36:58
- Disponibile dal: 23/09/2011
- Etichetta:
- Napalm Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
E’ con sommo dispiacere che vi parliamo di quello che riteniamo essere il primo vero e proprio passo falso della carriera degli Hatesphere. Se “Serpent Smiles And Killer Eyes” per certi versi non era stato proprio esaltante (specie dopo due disconi come “Ballet Of The Brute” e “The Sickness Within”), con “To The Nines” i nostri si erano trovati ad affrontare la difficoltà di un robusto cambio di line-up, ma tutto sommato, quel disco ci aveva consegnato una band in forma e avevamo sperato in una ripresa. Poi Jonathan “Joller” Albrechtsen, giovane volenteroso e capace sostituto di Jacob Bredahl, ha deciso di mollare il colpo e di dedicarsi agli Scarred By Beauty a tempo pieno. Così gli Hatesphere si sono trovati nuovamente nella condizione di ricostruire la formazione, dovendo sostituire nel giro di qualche mese anche il bassista. Dietro al microfono è arrivato un certo Esben “Esse” Hansen (ex As We Fight), e francamente questo è senza ombra di dubbio il primo vero punto debole della nuova formazione della band danese, e, di conseguenza, di questo “The Great Bludgeoning”. Parliamo infatti di un cantato fiacco, impersonale, banale e che spesso e volentieri cerca persino di ricalcare – con scarsi risultati – lo stile del ben più capace storico vocalist Jacob Bredhal. Aggiungete che Pepe, chitarrista e compositore della band, a questo punto si trova a fare tutto da solo in fase di songwriting, in quello che sembra essere l’album meno ispirato anche sotto questo punto di vista. Una serie di tracce che sembrano autocitarsi, con soluzioni, riff, stop and go vari che per lo più avevamo già sentito nelle migliori canzoni, ma stavolta con molto meno mordente. Sinceramente, sono davvero poche le canzoni che ci sentiamo di salvare da “The Great Bludgeoning”: “The Killer”, “Need To Kill” e “Devil In Your Own Hell” non sono male, anche se bisogna arrivare fino in fondo al disco per scoprire queste ultime due… Il resto è per lo più noia, tra una title track che sembra un’altra title track (“Sickness Within”) e una canzone rallentata che sembra una “Only The Strongest”, ma non lo è; diciamo che è giusto qualche riff a salvarsi. Un po’ poco per poter anche solo dare una sufficienza a questo disco, di cui, sinceramente, avremmo fatto volentieri a meno. Diciamo che mai come in questo caso sarebbe necessaria una formazione stabile e affidabile, ma evidentemente costruirla non deve essere facile. Un vero peccato.